Tornando col pensiero alle condizioni sociali e politiche del secondo dopoguerra, si comprenderà il fenomeno che caratterizzò alcune zone cortonesi dal rosso intenso – per l’alta concentrazione di comunisti e socialisti –. Dove la gente, con abnegazione, si ostinò a costruire ritrovi pubblici per attività ricreative e politiche: le Case del popolo.
Fin dai primi del Novecento, nel Capoluogo non mancavano luoghi di incontro, dalle caratteristiche ricreative, culturali e politiche (cinema, teatro, bar, sale giochi e da ballo), come il Circolo Operaio Signorelli e il Circolo Benedetti. Nel resto del territorio comunale avresti trovato pochi bar, e rare sale da ballo. I più diffusi e organizzati ritrovi per conferenze, giochi per ragazzi, erano adiacenze parrocchiali: oratori, cinemini, sale per feste e riunioni. Trenta o quaranta parrocchie, presidiate allora da un clero autoctono, addestrato non solo a dispensare sacramenti e dottrina cristiana, ma anche a tessere trame politiche filogovernative e anticomuniste, in modo più o meno esplicito ed esagitato. Pure le sedi del Fascio, unico e incontrastato presidio politico territoriale durante il Ventennio, non furono così tante, insediate nelle frazioni principali.
Finita la guerra – iniziata l’acuta divaricazione politica tra i partiti del Fronte popolare di sinistra, da una parte, e, dall’altra, la DC e gli alleati centristi – sorse l’impegno, divenuto esigenza impellente, di costruire nelle frazioni più rosse e popolose ritrovi polifunzionali. Aperti, nelle intenzioni, alle varie tendenze culturali, sportive e politiche presenti nel luogo, non rappresentate dalla Chiesa. Nonostante le difficoltà materiali di molte famiglie, strette tra miseria diffusa e alla perenne ricerca di lavori spesso precari e malpagati, il moto a favore della edificazione delle Case del popolo fu così partecipato e virtuoso che, nel giro di pochi anni, fiorirono molte costruzioni. A mente, ricordo a Cignano, Montecchio, S. Lorenzo, Farneta, Chianacce, Camucia.
Tra i primi, a contrastarne la realizzazione, furono gli avversari politici del Fronte social comunista, e i preti. Nel ’48, la scomunica contro i comunisti ebbe ripercussioni anche sulle processioni, almeno in qualche parrocchia, dove, per l’assenza delle possenti spalle contadine, toccò alle donne sorreggere le pesanti stanghe delle statue sacre. Dimostrazioni tangibili del distacco massiccio dalle funzioni religiose avvenuto nelle campagne, per via della scomunica. Alla quale reagirono tanti, indignati, dovendo scegliere tra due fedi: religiosa e di partito. Nel cerchio dei favorevoli a costruire Case del popolo, insieme ai rossi, si aggregarono non pochi laici, indipendenti dai partiti e dal clero. Tra loro, a Camucia, si distinse il farmacista Edo Bianchi. Il quale donò il suo obolo pensando al fatto positivo di una frazione che stava organizzando una nuova sede di svago e incontri. Per più generazioni, in quei ritrovi si formarono coppie di innamorati al ballo, vi si riunivano persone sprovviste delle prime televisioni, o in incontri politici e ricreativi, a partire dalle Feste de L’Unità, che presero campo in molte delle numerose frazioni cortonesi.
Il concorso popolare alla costruzione andava dalla sottoscrizione di quote sociali, a fornire lavoro volontario e gratuito, o conferire, a gratis o a prezzi scontati, materiale da costruzione: mattoni, cemento, sabbia, ecc. Nei primi anni, la gestione delle Case del popolo fu concorde tra socialisti e comunisti. Ma in virtù del maggiore attivismo dei comunisti, più numerosi, e a seguito di certi episodi politici scatenanti polemiche tra i social comunisti (i fatti di Ungheria, la riunificazione socialista, e l’avvento del Craxismo), furono, spesso, i comunisti a egemonizzare le cooperative di gestione delle Casa del popolo. Spazi stretti furono concessi ai partiti minori di sinistra, PSIUP e Rifondazione Comunista. Gradualmente, furono allontanati dalla sede, anche fisicamente, i socialisti, che, a Camucia, trovarono ricovero in piazza De Gasperi. (Fino a non molto tempo fa, quel locale apparentemente abbandonato, alla scomparsa di Craxi dalla scena politica, lasciava in bella mostra in vetrina una rosa nel pugno che nel tempo stingeva il colore). Infine, sorte disonorevole è toccata alla Casa del popolo di via s. Lazzaro. Rimasta in mano agli eredi del patrimonio (non degli ideali) comunista, versa da anni in triste abbandono: dettato dall’inadeguatezza della struttura a nuove esigenze? O pur anche dalla scomparsa di soci volenterosi a prestare gratuitamente mano d’opera e denari, come furono i primi fondatori, animati da incrollabile fede nel futuro dei loro ideali?
In realtà, quel che alcuni eredi dei soci fondatori hanno sommessamente lamentato è stata la carenza di informazione sui motivi dell’abbandono di questa Casa del popolo, che fa penosa mostra di sé in mezzo a Camucia.
Certo il destino delle Case del popolo è stato condizionato dalla loro duttilità strutturale a servire alle nuove esigenze aggregative e ricreative. Non c’è dubbio, però, che dove i gestori si sono impegnati con lungimiranza ne hanno conservato l’uso sociale, in modi più o meno brillanti, ma pur sempre funzionali alla vita di paese. L’esempio più eclatante è a Chianacce, dove, resisi conto delle nuove esigenze, se n’è costruita, ex novo, un’altra. Negli anni Ottanta. Alla cui inaugurazione, addirittura, intervenne Alessandro Natta, allora segretario nazionale del PCI. Meno brillanti, tuttavia ancora aperte, le Case del popolo di Montecchio, s. Lorenzo e Cignano. Non che sia venuta meno l’esigenza dei luoghi di aggregazione laica paesana. Anzi. Specialmente con l’aumento della popolazione anziana, lo stesso Comune è stato sollecitato a provvedere. Da ricordare in proposito, l’impegno dello scomparso Angiolo Fanicchi per le sedi nuove di incontri realizzate a Terontola e a Pietraia. Modello che richiederebbe d’essere esteso laddove strutture private o parrocchiali non fossero in grado di fornire funzioni analoghe.
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