La prima volta in Ospedale da neoinfermiere, dalla bacheca all’entrata conobbi il nome di uno dei miei futuri capi: il Direttore Amministrativo, scritto in appendice a deliberazioni, comunicati, ordini di servizio. Dall’estensione dei titoli e mansioni, non poteva non incutere soggezione. Al contrario, di persona, si mostrò gentile e disponibile; gestiva il potere conoscendo minuziosamente persone, cose, procedure e quant’altro fosse stato utile all’ammaraggio morbido, in quel pianeta, d’un pivello, quale mi presentai.
Alla scrivania di rado stava seduto, sempre in movimento dagli scaffali al tavolo, convocava continuamente questo o quel collega amministrativo per dare incombenze o chiarire il miglior modo di procedere nella quotidiana nassa di adempimenti. Elegante, in cravatta, giacca e pantaloni abbinati, capelli folti e candidi pettinati con cura, occhiali spessi con montatura dorata. Dai modi fini e formali, ma non creava distanze. Anzi, induceva ad affrontare subito il nocciolo della conversazione, senza tergiversare in cerimoniosi inutili orpelli. Era la sua filosofia: nel lavoro, tempo e concentrazione erano preziosi alleati. Senza negarsi, però, a un sorriso sbrogliato il problema, o in occasione di ritrovi coi colleghi a festeggiare ricorrenze, o partecipando ai non rari convivi goderecci organizzati dal personale, in questo o quel ristorante. Era un gastro-resacato (mi pare), ma considerava il suo stomaco di acciaio, dandone ampie dimostrazioni a gambe sotto la tavola.
L’Ospedale era una specie di famiglia allargata, dato le tante ore di lavoro insieme, compresi i turni pomeridiani e notturni. Per l’attaccamento al lavoro, e la mole di impegni, spesso il Commendatore (così lo chiamavamo, i più) entrava presto la mattina e usciva nel tardo pomeriggio. Sapevamo, insomma, ch’era presente e rintracciabile al bisogno, senza difficoltà. Lui stesso faceva qualche visitina nei reparti anche solo per un saluto, o scambiare battute col suo allegro umorismo all’inglese: misurato e pungente.
Ma com’era giunto a Cortona? Ne parlava come la storia d’un innamoramento.
Nativo del Catanese, e impiegato per tanti anni al Ministero della Sanità a Roma. Già in quegli uffici, per meriti di lavoro, aveva guadagnato quasi per intero una sfilza di titoli onorifici: Cavaliere, Grand’Ufficiale, fino al massimo, Commendatore. Proprio da ministeriale era stato incaricato di recarsi a Cortona a controllare i conti dell’Ospedale. Una volta pensionato dal Ministero, questa Città gli era piaciuta al punto da proporsi come impiegato presso l’Ospedale, che non gli era più estraneo. A proposito del clamore che seguì il pensionamento in massa di dirigenti ministeriali, si parlò di “pensioni e liquidazioni d’oro”, e se qualcuno associava Moré a quella fortuna lui ci rideva, lasciando nel dubbio. Comunque sia andata, il Commendatore – ben accolto dagli amministratori, vuoi per il positivo approccio da controllore, vuoi per la straordinaria esperienza maturata al Ministero – ben presto si fece una splendida dimora alle porte della Città, dove riunì e crebbe la famiglia. E da qui non si sarebbe più mosso. Dimostrando impegno e passione nel lavoro e nel volontariato – Governatore della Misericordia e presidente della cooperativa del periodico L’Etruria – avendo scelto, felicemente, Cortona città adottiva.
Discreto fumatore anche in ufficio – ancora non era partita la crociata dei divieti antitabagismo –, nei momenti caldi allentava la disciplina dell’eleganza stando in maniche di camicia, e, per me non senza sorpresa, rimpallava domande e risposte, dalle rispettive stanze, col fido vice ragioniere Mauro Ulivelli – altro strafumatore. Credo, l’unico autorizzato a chiamarlo Gegé. Gli anni Settanta assisterono a momenti di rinnovato splendore ed efficienza dell’Ospedale, anche per merito di Moré. Una specie di canto del cigno, prima della chiusura per confluire, con altri presidi ospedalieri, nel nuovo stabile della Fratta. Il Commendatore e l’Economo Salvicchi, in quegli anni dettero il meglio di sé da dirigenti ospedalieri amministrativi, avendo favorito trasformazioni radicali, in pochi anni Settanta. Con il restauro completo della struttura, decaduta e abbandonata dall’utenza, e con l’immissione di personale, per qualità e quantità, idoneo a reggere degnamente i servizi attivi: Chirurgia, Medicina, Ostetricia e Ginecologia e Ortopedia. (Bisogna considerare la difficoltà di attrarre a Cortona specialisti d’una certa qualità, e farli rimanere, convincendoli che la struttura era degna non di un fugace transito ma di una definitiva collocazione). Senza quell’intervento radicale, le condizioni dell’Ospedale erano come se fosse in via di chiusura. Anzi, sarebbe stato meglio chiuderlo.
Moré era Repubblicano. Simpatia politica che gli si attagliava come gli abiti eleganti. I Repubblicani erano laici e ritenevano prioritario uno stato efficiente, perciò giusto. Anche se di lì a poco sarebbero scomparsi. Però, se non ricordo male, furono rari i repubblicani scovati con un po’ di “marmellata” in bocca ai tempi di tangentopoli, mentre negli altri partiti la “marmellata” era scorsa a secchiate! Il Moré repubblicano, oltretutto, era vicino a istanze popolari. E, di questo, n’ebbi esplicita testimonianza diretta. Allorché, quel ch’era il mio partito, il PCI, decise di cambiare nome e simbolo, incontrandomi, m’apostrofò: “Ma cosa stanno facendo i tuoi compagni? Distruggono il partito dei lavoratori?!… Mi sembrate tutti matti!… Se ne avessi le forze, lo ricostituirei io quel Partito!” lasciandomi di stucco. In genere ci si aspetta da persone mature tendenze moderate, ed era questa le mia convinzione sul Cav. Granduff. Comm. Rag. Francesco Nunziato Moré. Il quale, invece, m’insinuò il tarlo del dubbio su quella trasformazione politica che avevo accettato – oggi posso dirlo –, sconsideratamente, di buon grado. Si stava creando in Italia un vuoto assurdo.
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