Per lodevole iniziativa dell’Associazione “Civitella Ricorda” e della sua Presidente, la signora Ida Balò, sono state pubblicate le Memorie di don Natale Romanelli, parroco di Cornia nei terribili momenti dell’ultima guerra: “Memorie di Don Natale Romanelli sulla strage di Cornia”.
Credo che sia giunta finalmente la giusta occasione per ricordare doverosamente e rendere omaggio a un sacerdote che con coraggio “amò il suo Prossimo”, sfidando eroicamente le ire e le minacce dei repubblichini e non mancando di offrire la doverosa Carità cristiana a coloro che bussavano alla sua porta.
Don Natale Romanelli nacque il 24 Dicembre 1906 a Bucine, da Giovanni ed Emilia Tavanti. Morì il 31 marzo 1955 a San Zeno (Arezzo).
La famiglia Romanelli abitava in località “Casa Fredda”, in comune di Bucine, in un’abitazione che era stata costruita alla fine del 1700. Don Natale era il quarto di 11 tra fratelli e sorelle. Morì tragicamente in un incidente stradale al bivio di San Zeno mentre si recava a benedire le case durante il periodo di quaresima.
Quella dei Romanelli era una famiglia di proprietari terrieri. Possedeva più poderi, con oltre 100 ettari di terreni seminativi e boschi nonché ben 8 greggi di pecore, che ogni anno le procuravano circa 450-500 agnelli.
Come altri proprietari terrieri, pure la famiglia Romanelli aveva simpatie verso il Partito Liberale e Giovanni, padre di don Natale e dei suoi fratelli, prima del fascismo era stato consigliere comunale a Bucine.
Anche dopo il 1922, i Romanelli rimasero contrari al fascismo. Giovanni fino alla sua morte, avvenuta nel 1927, rimase d’idee cattolico-liberali e in più occasioni entrò in contrasto con il Toti, padrone di Montaltuzzo, fondatore dei locali Fasci di Combattimento e ben fornito di “picchiatori”. Come molti contadini, anche quelli dei Romanelli erano in maggioranza social-comunisti e più volte Giovanni fu costretto a difenderli dalle squadracce fasciste.
Racconta il nipote, che porta il nome del nonno Giovanni, che un giorno i fascisti della zona, guidati dal Toti, andarono a interrogare il Corallini, un contadino della famiglia che quel giorno era andato a lavorare a Casa Fredda. I fascisti chiesero il permesso a Giovanni, che lo accordò, ma rimase sulla loggia a vigilare con il fucile in mano, dicendo: “ho dato solo il permesso di parlare con lui …”, a significare che qualsiasi accenno a violenze, lo avrebbe impedito immediatamente.
Anche don Natale, come la sua famiglia, era un cattolico liberale con nessuna simpatia verso i fascisti.
Arrivato alla Cornia come parroco, don Natale si portò dietro la mamma Emilia e la sorella Emma, invalida. Abitavano in canonica con lui anche il fratello Giuseppe assieme alla moglie Gina.
Furono proprio Gina e Giuseppe, testimoni oculari di molte vicende accadute alla Cornia, a raccontare quanto aveva fatto don Natale per tutti coloro che si erano rivolti a lui in cerca di aiuto.
E don Natale, “per principio di Carità” cristiana – come affermò – aiutò chiunque senza guardare alla nazionalità, al colore o alle idee politiche.
Subito dopo l’8 settembre 1943, la massima parte dei prigionieri alleati, rinchiusi nel Campo di concentramento di Laterina, appena le guardie italiane si dileguarono fuggì via e si nascose nei boschi circostanti. Girovagando, alcuni arrivarono nella zona di Cornia e chiesero un aiuto a don Natale. Lui non si tirò indietro e fornì loro da mangiare, qualche vestito e ogni tanto li ospitò persino nei ripostigli della canonica.
Anche altri parrocchiani aiutavano quei giovani ex nemici sventurati, magari sperando che i loro figli, in chissà quale parte del Nord Africa o dell’Europa, trovassero altrettanta pietà dagli abitanti di quei lontani luoghi.
Quei “macchiaioli”, come li chiamava don Natale, non passarono inosservati a qualche persona più fanatica o più legata al fascismo repubblicano. E proprio a Cornia abitava una tizia che per qualche tempo aveva lavorato a casa di un “fascistone”. Quella donna in più occasioni si recò al comando repubblichino di Villa Rubeschi, presso Capannole, per raccontare del suo parroco che aiutava i “nemici” del regime. Don Natale conosceva l’identità della spia, ma non ne fece il nome e affermò nelle Memorie che avrebbe pregato “per l’anima sua”. Ma, quelle spiate ebbero i loro effetti e il 1° gennaio 1944 iniziarono le “visitine” da parte di repubblichini e di poliziotti, narrate da don Natale nelle sue Memorie.
I repubblichini usarono vari modi per cogliere in fallo don Natale, ma lui con quell’astuzia tipica del mondo contadino, al quale apparteneva, riuscì sempre a fregarli in maniera davvero esemplare. Non bastarono i due falsi paracadutisti, subito identificati da don Natale come i ben noti repubblichini Paoletti di Montevarchi e Rubeschi di Capannole. Non servì l’irruzione in canonica alle 4 del mattino dell’8 marzo 1944 di ben 30 armati. E fu inutile anche la messinscena orchestrata dal tenente Sacchetti alle 4,30 del 30 maggio, quando assieme a molti armati assediò la canonica della Cornia e inventò a don Natale che nella notte avevano arrestato 5 ribelli, i quali lo avevano accusato di favoreggiamento. La risposta di don Natale fu risolutiva: sarebbe stato felice di essere fucilato assieme ai 5 ribelli catturati, se quelli in sua presenza avessero confermato le accuse. Ma non c’era alcun ribelle catturato e i repubblichini, dopo essersi ingozzati “come tanti porci”, si addormentarono sulla tavola.
Nell’andare via, i repubblichini proferirono una terribile e profetica minaccia: “state attento perché si brucia voi e tutta la popolazione!”.
Sul finire del maggio 1944, si intensificarono i rapporti di don Natale con la banda partigiana “Renzino”, comandata dall’ex sottotenente paracadutista della Nembo, Edoardo Succhielli di Tegoleto (Civitella in Val di Chiana). Succhielli scrisse nel 1979 che don Natale preparava le stelle rosse per i cappelli dei suoi partigiani e Giovanni Romanelli mi precisa che in realtà era la sua mamma Gina a cucire quelle stelle, come cucì anche la bandiera di seta rossa della banda partigiana “comunista”. E questo fatto suscitava l’ilarità della suocera Emilia, che prendeva bonariamente in giro la nuora che lavorava per quelli che volevano “fare fuori” i padroni e i preti, cioè loro stessi. I rapporti tra don Natale e il comandante Succhielli – “Renzino”, per anni hanno suscitato delle domande: come poteva essere che il parroco della Cornia, il quale ospitava i partigiani in un podere di famiglia (Bollore), che permetteva alla cognata di cucire le stelle rosse e la bandiera per la banda, che il Succhielli chiama più volte “il nostro don Natale”, nelle sue Memorie sia stato così duro nei confronti del comandante partigiano, al punto da scrivere: “Il capo però non era una persona atta a questo e perciò precorsero il tempo e ci portarono alla rovina completa”? Tanto più che in fin dei conti addebita alle azioni della banda “Renzino” “quella distruzione che avevano annunziato un tempo i vili e biechi repubblichini aggregati con i tedeschi”.
Ebbene, le testimonianze di Giovanni Romanelli hanno chiarito questo aspetto. Don Natale non perdonò al comandante Succhielli di aver arrestato e portato a Bollore la signora Helga Cau – residente a Gebbia di Civitella – che essendo di origini svedesi, ma di madre tedesca, svolgeva l’incarico d’interprete presso il Comando tedesco di Monte San Savino. Era stato il dottor Gambassini, medico condotto di Civitella e capo della Resistenza locale, a segnalare la Cau quale spia dei tedeschi. Il Succhielli l’aveva fatta arrestare dai suoi partigiani e portata a Bollore l’aveva interrogata. Resosi conto dell’onestà della donna, l’aveva invitata a pranzo assieme al marito Giovanni e poi, con una leggerezza incredibile l’aveva portata a interrogare due tedeschi suoi prigionieri e accusati di razzie. Ma nella notte i due tedeschi erano riusciti a scappare e a tornare al loro comando, accusando la Cau di doppio gioco e segnandone il destino: il 29 giugno fu prelevata dai tedeschi e portata a Monte San Savino assieme al marito; i due furono quindi assassinati e seppelliti in una fornace.
Dunque, afferma Giovanni Romanelli che la signora Helga Cau era sì l’interprete dei tedeschi, ma di ideali antifascisti e antinazisti. Spesso andava alla Cornia da don Natale e in gran segreto lo metteva al corrente di importanti informazioni che aveva conosciuto durante il suo lavoro di interprete: localizzazione dei comandi e dei magazzini, movimenti di truppe, operazioni di rastrellamento ecc. Don Natale andava poi ad Arezzo e riferiva quanto aveva saputo a don Onorio Barbagli, membro del Comitato Provinciale Liberazione Nazionale, il quale a sua volta informava gli altri membri del Comitato e il comando della Brigata partigiana “Pio Borri”.
Purtroppo, don Natale non poteva rivelare l’importantissimo e rischiosissimo lavoro che svolgeva la benemerita ed eroica Helga Cau, ma pensava che il comando partigiano conoscesse almeno l’aiuto materiale che lei e la mamma davano a ex prigionieri e sbandati vari che transitavano dalla sua abitazione a Gebbia.
Il 29 giugno, quando si scatenò la furia nazifascista sulla Cornia e sui paesi vicini, anche la sorte di don Natale sarebbe stata segnata, quanto se non di più di quella del suo confratello don Alcide Lazzeri, parroco di Civitella. Per sua fortuna, mentre si recava a Verniana in bicicletta per officiare la messa delle ore 9, un parrocchiano lo avvertì dell’imminente pericolo e lui, tornato di corsa alla Cornia, riuscì a far fuggire gli uomini del paese, ma non le donne che vollero caparbiamente rimanere, convinte di non essere nelle mire dei nazifascisti. Invece, la ferocia non risparmiò né donne e né bambini, portando via anche la madre e la sorella di don Natale, massacrate e poi bruciate dai nazifascisti. Si salvò casualmente la cognata Gina, incinta di tre mesi di Giovanni, il quale ancora oggi si considera uno scampato alla strage.
Per Don Natale il ritorno alla Cornia fu traumatizzante. Vedere quella strage, quella profanazione dei morti, i sacrileghi atti di vandalismo nella sua chiesa lo annichilirono. Si pose anche la dura domanda: “Ma come ha fatto a non fulminarli il Signore?”. E non si capacitava di come avessero potuto compiere una strage del genere, non solo i “barbari tedeschi”, ma anche “genti Italiane in borghese, anzi possiamo assicurare che erano in massima parte Italiani”.
Don Natale raccolse i suoi ricordi nelle Memorie adesso pubblicate. Ve ne sono tre esemplari, leggermente discordanti tra loro. Oltre ad altri scritti conservati da Giovanni Romanelli. Grazie al certosino lavoro di ricomposizione, fatto da Giovanni assieme al Prof. Ivo Biagianti, si è arrivati alla stesura definitiva e precisa.
Nelle Memorie di don Natale, si toccano con mano sia la sua costernazione e il grande dolore per la sorte della mamma e della sorella, ma ancor di più l’incredulo orrore di fronte alla sacrilega devastazione della sua chiesa, avvenuta ai primi di luglio ad opera dei tedeschi. Una devastazione, una profanazione, una rovina, una furia iconoclasta davvero incredibili e inspiegabili, che ci richiamano analoghe vicende accadute durante le guerre di religione, quattro secoli prima.
Subito dopo la guerra, Don Natale fu trasferito a Verniana per qualche tempo, poi fu mandato a Civitella. Ma la gente di Civitella era troppo segnata dalla recente strage e non riuscì mai a sintonizzarsi adeguatamente con quel prete buono, ma taciturno e introverso, duramente piegato dalla medesima furia assassina. Comunque, Mons. Luciano Giovannetti, Vescovo emerito di Fiesole, che all’epoca era chierichetto a Civitella, ne ha un buon ricordo e rammenta che poco dopo il suo ingresso in Seminario, Don Natale lo andò a trovare dimostrando affettuosa cordialità.
Poco tempo dopo, don Natale chiese di essere trasferito e la Curia lo assegnò alla parrocchia di San Zeno, dove trovò la morte.
Don Natale ha avuto il “torto” di essere sopravvissuto alla strage del 29 giugno 1944 e questo suo salvarsi, in seguito ha fatto dimenticare il suo prezioso aiuto dato agli ex prigionieri alleati e ai partigiani della Banda Renzino. Lui stesso ci dice che il suo aiuto non era altro che “in conformità alla carità cristiana”, ma dalle sue Memorie traspare chiaramente quella sua avversione verso i “vili e biechi repubblichini” e gli “infami tedeschi”, a testimoniarci anche una sua – magari inconscia – vicinanza “ideologica” con quanti si opponevano in armi o semplicemente con la renitenza ai nazifascisti.
Don Natale Romanelli è uno dei tanti sacerdoti che nella violenta tormenta della guerra, rimasero accanto alle loro popolazioni, condividendo con esse i drammi quotidiani e cercando di portare il loro aiuto ai fratelli che al momento ne dimostravano maggior bisogno. Uno di quei sacerdoti, come lo stesso don Alcide, che compresero benissimo da quale parte stava il Bene, senza però mai dimenticare di essere, prima di tutto, “pastori” di anime.
Santino Gallorini