Eccoci. Tre famiglie, con pargoli qua e là compagni di scuola, piscina, danza, giochi. Noi “grandi” ci incontriamo, in chat o vis à vis, quotidianamente. Per scherzare o discutere di politica, aggiornarci sulla cronaca della Magliana e condividere ricette ed emozioni. A scambiare battute di Verdone (a cui il nostro gruppo rende omaggio) o a riflettere sulla felicità ed altri sentimenti. Quando si dibatteva per individuare la giusta scuola media a cui iscrivere i tre primogeniti, il risultato schizofrenico è stato quello di mandarli in tre scuole diverse. E ieri a mezzanotte abbiamo stappato lo spumante con tanto di conto alla rovescia, solo perché ci andava di festeggiare.
Ecco lo dico scherzando ma forse è proprio così: il nostro è un gruppo di auto-aiuto. Sarà per questo, per qualche oscura forma di terapia, che abbiamo seguito la serata conclusiva del Festival. E lì il disagio. Innanzitutto, se ho ben capito, questo festival della Chirurgia Plastica era quello che nonno Alfredo definiva “revivà de Prima Porta”, nel senso che l’età media di partecipanti/pubblico/
Inoltre, quando del tutto incidentalmente e mormorando quel commento zen che è “sticazzi” avevo appreso dello scioglimento dei Pooh, oltre ad aver ricordato l’appropriato commento che mio padre beethoveniano riservava loro, ovvero “non so chi siano”, avevo in maniera fallace ed illusoria ritenuto che non potessero fare ulteriori danni, a parte aver liberato nel mondo DJ Francesco.
Oh! E invece non si sono sciolti, ma scissi, come dei batteri, moltiplicando gli echi di Piccola Cheti (Katy, Kety, Queti…?) in quel dell’Ariston e nelle case degli italici spettatori paganti.
Poi a seguire la Vanoni, nel remake di “La morte ti fa bella”, e varia altra paleofauna. Ma c’erano anche dei pischelli, delle promesse per il futuro della canzonetta, che avendo evidentemente approcciato la musica solo da poche settimane, non sono riusciti a mascherare stonature e voce non impostata. Tra questi un’accozzaglia inspiegabile di soggetti avversati da Madre Natura, pettinati male e vestiti peggio. Sfigati, abbiamo pensato tutti. E invece no! La critica ha assegnato loro l’ambito Mongolino D’Oro, lasciando chiaramente intendere a noi spettatori inadeguati che con i vestiti di Malgioglio e gli sguardi similTrota essi sono forieri di cultura e il testo originale salvacondotto per il Parnaso musicale.
In generale l’assortimento canoro mi faceva pensare ad una di quelle classi in cui gli studenti sono tutti scarsissimi, per cui, invece di stilare 25 schedine del totocalcio, si sopravvaluta chi fa il minimo sopra lo zero e si abbassano drasticamente i criteri di valutazione. Così anche chi respira si ritrova una pagella decente ed un osservatore esterno che si trovi ad esaminare i voti pensa “Ah, però: che bella classe”.
Questi erano i brani e gli interpreti selezionati tra molti altri, immagino. Ma erano the best of, oppure i più rappresentativi? È questa l’idea che gli organizzatori del festival hanno di noi italiani? E questa immagine di festa patronale paesana, con sketch deprimenti alternati all’angolo della tristezza, è il riflesso della nostra società?
Non so se voglio pensarci, se davvero voglio conoscere la risposta.
Quello che conta, adesso, è che Sergio quanno torna da via Lampridio Cerva se deve ricordà de comprà er sale quello grosso, grosso, no fino!