Chi mi conosce sa che in quanto a musica ho delle idee un po’ anticonvenzionali che probabilmente mi attireranno le critiche dei puristi, ma di cui sono convintissimo. Una di queste e che “le note sono sette e la musica è una” (mio tormentone radiofonico a Chicken). Credo di aver ascoltato abbastanza roba per affermare che tutto ciò che si è sentito nel corso dei secoli a mio avviso fa parte di un solo unico flusso, senza interruzione di continuità, anche se con delle cesure rappresentate dall’evoluzione tecnologica con eventi che hanno rappresentato delle vere e proprie rivoluzioni, una su tutte l’invenzione dell’energia elettirca.
Commette quindi secondo me un errore chi separa in due mondi totalmente distinti e privi di possibili connessioni la musica contemporanea intesa come musica “leggera” (in tutte le sue infinite ramificazioni, intendendo la musica di massa dal ‘900 in poi) e la musica “classica” (intesa, in realtà molto confusamente, come il melange di tutto quello che c’è stato prima, dalle sinfonie alle sonate, i valzer straussiani, fino alla lirica ecc ecc)
In virtù di questo errore di fondo da diversi decenni tutta la “classica” è intesa nella cultura popolare come una passione di nicchia, destinata a certi individui ritenuti in qualche modo culturalmente evoluti, perchè quella sarebbe una musica per certi versi “difficile” e comunque facente storia a sè, totalmente slegata dalla “leggera”. In pochi quindi la ascoltano, proprio in virtù di questa errata distinzione che poi alla fine diventa pregiudizio
Si dimentica però che il nostro carissimo Giuseppe Verdi, celebrato oggi nel 200esimo dalla nascita, era un musicista come musicisti sono i cantanti pop di oggi e a tutti gli effetti era pure un artista mainstream, ossia “popolare” anche negli strati bassi, ovviamente nei limiti di quella che poteva essere la diffusione della musica a quei tempi e la possibilità di ascoltarla. I teatri, comunque, erano sempre pieni e non solo di elite nobiliari o dell’alta borghesia, ma anche di appartenenti a strati meno abbienti. Verdi divenne poi un simbolo della nostra lotta per l’indipendenza. Se lo divenne il motivo è ovvio: era famoso e amato da tantissimi
Il melodramma italiano, uno dei generi in cui il nostro pease ha primeggiato, può essere da questo punto di vista ritenuto, con le popolari “arie” (i momenti maggiormente cantabili), l’antenato della “canzonetta”. Quindi se non ci fosse stata “Di quella pira” o il coro del “Nabucco” non avremmo probabilmente avuto le nenie di Gigi d’Alessio, ma neanche i capolavori di un Fossati e udite udite…probabilmente nemmeno i Beatles. Allo stesso modo generi musicali come il rock progressivo o l’hard rock / heavy metal non sarebbero esistiti se non ci fossero state certe intuizioni geniali di Bach o le potenti esplosioni sonore di Wagner e i continui cambi di scenario sonoro di Verdi. Difficile anche immaginare un mega-virtuoso della chitarra se non fossero esistiti i volteggi sul violino al limite del possibile di un Paganini
Ecco perchè, oggi, non ha secondo me alcun senso farsi dei pregiudizi rispetto a Verdi, come pure a un Beethoven, un Mozart, un Bach o un Vivaldi: è musica e la musica è una, anche se inevitabilmente il nostro orecchio è abituato a una forma differente. Le emozioni, però, vanno oltre ogni abitudine e la grandezza di Verdi non può non colpire le corde della nostra sensibilità, donando emozioni enormi.
Il problema, semmai, è quanto siamo scesi di livello nel corso degli anni, sia nella proposta musicale che nei gusti di massa, passando appunto da idolatrare Verdi, artista di una complessità e inventiva sconvolgente, all’attuale esaltazione di rapper come Moreno e i suoi derivati. Persone di cui probabilmente, fra 200 anni, non celebreremo alcun anniversario
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