Pioveva da un sacco di tempo, eravamo obbligati ad un saporoso isolamento casalingo che faceva sembrare lontanissimo e desiderabile l’arrivo dell’estate (sic!) e io, come antidoto alla depressione che immaginavo serpeggiasse tra i miei lettori, tentai di ricostruire l’entusiasmante atmosfera vacanziera che si respirava in Cortona nelle serate estive dei primi anni ’60, gli anni in cui nella nostra città, con discrezione, la musica ed il ballo la facevano da padroni. Ricordate?
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Divertirsi, e veramente molto, non era poi così difficile e…nessuno ne era disturbato.
Bastavano soltanto un’eccezionale band composta di provetti musicisti come l’ “Orchestra Jolly” dei fratelli Pagani & C, una pista dove ballare, quella della Casina dei Tigli, il bar annesso dove di tanto in tanto ristorarsi con gazose, aranciate, spume, chinotti, o anche soltanto con economici bicchieri di acqua di seltz che uscendo fuori con forza dal sifone delle tipiche bottiglie blu già sembrava portar refrigerio agli accaldati ballerini.
Bibite sempre e comunque assolutamente analcoliche e tutte rigorosamente prodotte “a Km zero” in Via Ghini n.ri 12/14 dalla ditta Pietro Scaramucci & sons di cui sono orgogliosa discendente.
Poche cose, insomma, ed il gioco era fatto: la calda serata estiva al Parterre si trasformava in un piacevolissimo happening che faceva immediatamente dimenticare ai cortonesi l’afa sopportata con sforzo durante la giornata e lo sgradevole ribollire notturno delle pietre che pavimentano le piazze e le vie all’interno delle mura del Centro Storico.
Valerio al sassofono, Walter alla tromba, Roberto al contrabbasso, Pepo alla batteria, tutti fin dall’infanzia addestrati dal padre, ottimo fisarmonicista, a suonare e ad esibirsi in pubblico, si alternavano e si univano in svariate formazioni con molti altri giovani cortonesi la cui bravura non era casuale: ognuno di loro aveva infatti alle spalle anni di studio appassionato e paziente presso la locale scuola di musica comunale ed ore ed ore di esercizi quotidiani sugli strumenti.
Mambi, sambe, twist, surf, cha cha cha, rock’roll, la musica, anche la più ritmata ed esuberante, se saputa suonare, non risulta mai sguaiata e fastidiosa. Nessuno infatti, quando si esibivano i componenti delle varie orchestrine cortonesi, era costretto all’esodo forzato verso altri siti della città per dare riposo alle povere orecchie martoriate dalla sgangherata accozzaglia di note assemblate approssimativamente da pseudo-musicisti clamorosamente dilettanti! (mi si permetta questa velata, ma non troppo, polemica con l’oggidì!).
Ero solo una bimba, ma la passione per la musica e per il ballo facevano sì che tutto ciò che succedeva o si diceva in quelle mitiche serate rimanesse vividamente impresso nella mia memoria. Dall’attento ascolto dei commenti di quelli che io chiamavo “i grandi” constatavo che tutti, senza eccezioni, apprezzavano quel gradevole sottofondo che “faceva estate e vacanza” senza disturbare le conversazioni di chi sedeva nelle panchine circostanti la pista da ballo o vicine alla rinfrescante “vasca dei delfini”. Quella colonna sonora senza essere becera accompagnava piacevolmente anche chi, invece di soffermarsi subito nella zona affollata, preferiva la rinfrescante e rilassante passeggiata notturna lungo il viale alberato, un rito quasi sacro per il cortonese DOC.
L’atmosfera serena o briosa creata dalla musica disponeva alla docilità anche i bambini che si lasciavano convincere dalle mamme ed i papà ad andare “fino in fondo al Parterre” in cerca di “lucciapalle”, le lucciole nostrane che durante la notte, imprigionate da un bicchiere, avrebbero “prodotto” qualche spicciolo per i loro piccoli carcerieri. Le melodie prodotte dagli strumenti dei nostri eccezionali performers, melodiche o brillanti che fossero, infine, facevano un po’ di compagnia anche a chi, solo e malinconico, aveva bisogno di un po’ di sollievo dalle proprie tristezze.
Passeggiare intorno alle aiuole fingendo di poter in questo modo concentrarsi meglio nell’ascolto della buona musica era poi un ottimo pretesto per quei genitori le cui figlie, ancora quasi bambine all’arrivo del trascorso autunno, erano inaspettamente sbocciate come i fiori primaverili rivelandosi avvenenti signorinelle molto appetibili per i giovani “galletti” locali. L’aggirarsi con apparente “nonchalance” tra le panchine meno in luce, era un modo “elegante” per controllare, occhio vigile e orecchio teso, che le ancora ingenue fanciulle in fiore, rese più sensibili dalla musica accattivante e dal galeotto semibuio, non accettassero troppo facilmente che i corteggiamenti dei giovincelli locali, più intraprendenti per l’eccitante calura estiva, divenissero pericolosamente audaci: frasi romantiche e … sospiri al chiaro di luna, questi erano le effusioni ufficialmente consentite.
Talvolta però, se i componenti dell’ “Orchestra Jolly” o delle altre bands locali si trovavano ad essere già impegnati perché molto richiesti dagli altri dancing del circondario, bastava il semplice juke box del locale perché l’allegria, la voglia di divertirsi e l’illusione di essere in vacanza fossero comunque garantite. Complici di tanta gaiezza le molte canzoni di quegli anni che avevano il gran merito di trasmettere un contagioso buonumore. Anche se…
“Cha cha cha della segreta-a-a-a-ria, cha cha cha che non pensa a dattilografar..cha cha cha della segretaaaaria,.. Cerco, cerco segretaria competente, non importa che sia bionda oppure no! E’ importante che sia giovane e carina non occorre la raccomandazion! … Non fa niente se non sa cos’è l’inglese, se non capisce una parola d’espanol! E’ importante che conosca l’italiano e che sappia parlare un po’ d’amor!…”
Troppo presa dal ritmo piacevolmente ballabile, il testo della canzone non era certo al centro della mia attenzione di bimba. Riascoltandola oggi però, con le orecchie di una povera “impiegata” che ha trascorso la sua vita di fronte ad una tastiera, poco importa se di macchina da scrivere o di computer, quella che avevo eletto a canzone simbolo delle gioiose estati della mia infanzia non mi è sembrata affatto lusinghiera per la categoria di lavoratrici a cui appartengo.
Per prendermi comunque la mia rivincita di “lavoratrice ferita nell’onore” , invece di aprire un tardivo e ormai inutile contenzioso sindacale nei confronti dell’autore o traduttore di questo testo, avevo deciso di modificare la mia personale “hit parade” dei brani simbolo delle ruggenti estati cortonesi dei primi anni ‘60, decretandone regina la altrettanto brillante “I tuoi capricci” di Neil Sedaka. Senonché… ascoltatela…
…Ponendo attenzione alle parole un dubbio cinico si affaccia alla mia mente di anziana comare disincantata e brontolona: la ragazza della canzone sopracitata era il solo esemplare di bizzosa sciocchina in circolazione in quel periodo e proprio in questa campionessa di vacuità, per malaugurata sorte, era incappato lo sfortunato Neil Sedaka venendo in Italia?
No, non era la sola secondo me, almeno se si prendono le canzonette come specchio dei tempi. Mentre infatti dalla lettura dei rotocalchi di quel periodo si può facilmente raggiungere la conclusione che gli eventuali flirts intessuti dalle turiste straniere con i “latin lovers” nostrani erano per le rappresentanti del gentil sesso non autoctone un motivo di vera gioia e una ragione in più per conservare nella memoria e nel cuore un ricordo molto piacevole del loro viaggio in Italia, una mia empirica e personale statistica sulle “hit” musicali di quegli anni mi ha invece convinta che proprio allora doveva esistere uno folto squadrone di ragazze dal cuore duro come il travertino, tutte inesorabilmente addette a strapazzare senza pietà i poveri maschi, soprattutto se cantanti, meglio ancora se provenienti da Oltralpe!
Avete dei dubbi? Youtube può toglierveli:
“Viivrò altri amori vedrò, dirò altre volte amo te…….” diceva Alain Barrière recidivo ma già rassegnato a commettere più e più volte lo stesso errore. Confessava infatti: “Ooormai so che sempre è così, voooorrei che finisse con tee, ma poi tutto continueràa…avrai altri amori anche tu e io non sarò più con te…”
Come poi non compatire il povero Paul Anka di “La verità”, “Piangerò per te” “La notte è fatta per amare” ecc…, lo straziato Gene Petney di “E quando viene la notte” ma soprattutto il pluribistrattato Adamo che in “La Notte”, “Lei”, “Cammina”, “Non sei tu” ecc… ci mette a parte di tutte le sue sfortune amorose dimostrando quanto lungimirante era stato suo padre ad emigrare in un Paese straniero per farlo nascere lontano da queste str…tte! .
Immaginando le protagoniste di queste canzonette non tornano in mente anche a voi le melense fanciulle di tanti films di fine anni ‘50 le quali – più che altro occupate a studiare scientificamente con quali abiti, trucco, frasi ad effetto, affascinare il tanto atteso principe azzurro da tiranneggiare una volta abbindolato,- erano anche disponibili, pur di raggiungere il loro diabolico scopo, ad indossare quei vestitini tanto graziosi ma talmente increspati e inamidati come stoccafissi da farle sembrare mongolfiere?
“Chi bella vuol apparire…” dice il famoso proverbio ed allora, purché la circonferenza della loro gonna raggiungesse misure da record, le più votate al sacrificio, stoicamente, dotavano i loro abiti di sottogonne orlate con cerchi di metallo !!! Sedersi con questa “attrezzatura”? Mah…
Osservavo le giovani che così agghindate occupavano più spazio di un ombrellone da spiaggia, mentre, invidiosa, sbirciavo tra uno spazio e l’altro della barriera di cannicci che in quelle serate veniva approntata tutto intorno alla pista da ballo immersa nel verde e nella frescura dei giardini pubblici e, osservandole, avevo già deciso che no, una volta cresciuta, quelle “mises” non avrebbero fatto al caso mio. Non solo le consideravo indissolubilmente associabili a ragazze che per indole e stile già sentivo molto lontane da me, ma proprio nel corso di quelle feste danzanti, quelle gonne dai diametri planetari si erano rivelate foriere di incresciosi incidenti che avevano fatto la gioia delle lingue biforcute di paese.
Molto meglio, semmai, quell’ abbigliamento altrettanto femminile ma un po’ meno affettato che in molte riviste veniva definito “alla garçonne”. “…Tutt’al più per il mare…” ! Dicevano però tante mamme preoccupate che le figlie, solo con l’indossare questi pericolosi “outfits” si calassero automaticamente nella parte della ragazza “in odore” di emancipazione!
Nell’angolo di osservazione che mi ero scelta, quello meno illuminato perché nessuno mi notasse mentre ero intenta ad di imitare i passi di danza che vedevo muovere alle fortunate ballerine che, beate loro, avevano l’età giusta per partecipare alle danze, non mi limitavo soltanto a sgambettare a tempo di musica. Cercavo anche, con l’ impegno e la precisione di un inviato speciale, di tener d’occhio minuto per minuto tutto quello stava succedendo in pista. Che minuziosa radiocronaca avrei potuto condurre se mi avessero dotato di un microfono!
Scrutavo avidamente e “salvavo” tutto in memoria archiviando il materiale carpito dai miei occhi e dalle mie orecchie in preziosi “files” che, riesaminati a posteriori, mi permettono di stilare un personale studio sociologico del gioioso microcosmo racchiuso all’interno della barriera di bambù della Casina dei Tigli e di quella piccola fetta di società che frequentava il parco cittadino nelle estati dei primi anni ’60.
Intanto era evidente, e lo capivo dalla musica di cui erano fanatici seguaci i miei fratelli più grandi di me di qualche anno, che gli artisti, le melodie e lo stile delle canzoni che appassionavano i miei genitori erano stati quasi del tutto messi in soffitta.
Il jazz e la musica nera, il grande Elvis Presley e i suoi “succedanei”, ma anche alcuni lungimiranti e coraggiosi autori e/o interpreti nostrani come Renato Carosone, Fred Buscaglione, Domenico Modugno, anche se non avevano ancora del tutto soppiantato la tradizione, erano già riusciti a svecchiare un bel po’ l’ambiente musicale e sociale. Chi avrebbe mai potuto supporre che quello che sembrava già un agognato arrivo sarebbe stata invece una gloriosa partenza verso un più importante e sorprendente traguardo?
Nel frattempo, infatti, 4 favolosi ragazzi di Liverpool, totalmente ignari del cambiamento epocale e planetario di cui stavano per farsi portavoce con la loro musica e con il loro irriverente e rivoluzionario atteggiamento verso la vita, stavano affinando le armi per la loro epica entrata in campo e, come in quei telefilm dove l’eroico cane Rin Tin Tin insieme a Rusty e al 101° Cavalleria arrivavano di gran carriera a salvare le situazioni più disperate, avrebbero permesso ai giovani di tutto il mondo di lanciare finalmente e all’unisono il grido liberatorio: “…Arrivano i nostri…”.
La “Beatlesmania” con tutto il suo bagaglio di anticonvenzionalità e ricerca di libertà dai vecchi schemi fu la scintilla che provocò lo scoppio di una bomba che già da un bel po’ aspettava di scoppiare per unire le giovani generazioni del pianeta sotto la stessa bandiera.
Solo della musica il merito di questa evoluzione di moda e di costume?
No, già da qualche tempo i rotocalchi che si occupavano di mondanità riempivano le loro pagine delle immagini delle nuove stelle del cinema che con il loro abbigliamento e con i loro atteggiamenti meno convenzionali prendevano le distanze dalla mai decrepita consuetudine. Vere ventate di freschezza e originalità.
Le più emblematiche? Brigitte Bardot e Audrey Hepburn, non ci sono dubbi.
Benché molto diverse in fatto di stile, gusti ed atteggiamenti, e perciò simboli di una femminilità assolutamente diversa, entrambe, in pochissimo tempo e in egual misura, erano divenute le regine incontrastate degli schermi cinematografici e delle cronache mondane, modelli a cui ispirarsi per tutte le ragazze di quegli anni.
Grazie a loro e ad alcune altre delle più emblematiche esponenti delle élites internazionali come Jacqueline Kennedy e Grace Kelly, che nei momenti di libertà dalle seriose occasioni ufficiali si lasciavano ritrarre abbigliate in modo informale e pratico ma comunque accattivante e seducente, lo stile cosiddetto “alla parisienne” divenne in un battibaleno universalmente “à la page”.
Pantaloni “alla Capri”, furono denominati gli spiritosi pantaloni sopra alla caviglia che le protagoniste del bel mondo indossavano, quasi come una divisa, durante le loro vacanze nell’isola del Golfo Napoletano che all’epoca, insieme a Saint Tropez, era il top dei top delle mete marine da raggiungere con yacht e panfili. Lì si ritrovavano i VIP di tutto il mondo e lì le nuove dive venivano quotidianamente paparazzate da stuoli di fotografi che, seguendole come ombre, immortalavano quei loro spesso effimeri amori estivi.
Audrey e B.B., entrambe cresciute nel mondo della danza classica, preferivano poi completare la praticità del loro semplice look calzando le graziose, versatili e gaie “cendrillones”, le nostrane “cenerentole” comode scarpette così chiamate perché indossate dalla protagonista della fiaba omonima nel film di disneyana memoria.
Le sfilate nel sacro Red Carpet del Festival di Cannes, il proprio matrimonio, non c’era occasione in cui le due dive rinunciassero ad indossare quelle che noi oggi definiamo “ballerine”.
Per Jacqueline Kennedy, le delicate e flessibili calzature erano un capo di abbigliamento così indispensabile da chiedere al proprio designer personale di creare per lei modelli sempre nuovi e diversi da abbinare a ciascuno dei suoi famosi foulards colorati.
Che favolosa “sciccheria”, secondo i miei occhi di bimba, aggiungere all’accoppiata “pantaloni alla Capri” e “ballerine” un graziosissimo top di pizzo di Sangallo come quello indossato nel film “Diciottenni al sole” da Catherine Spaak! Mentre guardavo la giovane attrice ballare il twist insieme a Gianni Meccia gli occhi mi uscivano dalle orbite dall’invidia. Lui, il cantante, aveva oltretutto il merito di esser l’autore de “Il barattolo” la piacevole canzonetta il cui attacco mi sembrava una vera e propria genialata.
Informale, sbarazzino, pratico questo look mi conquistò immediatamente. Mi sembrava perfettamente idoneo per dimenarsi ai ritmi più sfrenati senza preoccupazioni di sorta.
Non fui la sola ad apprezzarlo. Piacque infatti anche a quelle giovani cortonesi che, temerarie, cominciarono a sfidare le convenzioni adottando, prima per il mare e poi anche per la città, l’ “audace” abbigliamento alla maschiaccio con jeans arrotolati alla caviglia, pantaloni sfuggiti, magliette a righe di vago sapore maschile, ciabattine di gomma infradito.
Che “ganzata” pensavo smaniosa di imitarle!
Ma non c’erano in commercio indumenti di taglie così piccole da poter corrispondere alle mie dimensioni da lillipuziana.
Fu forse perché la mia passione infantile per questo look fu costretta a rimanere un amore senza coronamento che, come accade in quei grandi “feuilletton” ottocenteschi dove gli amori impossibili durano in eterno senza mai affievolirsi né cedere a tentazioni di sorta, questa moda, quella che per prima mi ha colpito al cuore , è stata ed è ancora l’unica che mi ostino pervicacemente a seguire con indefessa fedeltà. Pertanto se dalla primavera all’autunno inoltrato passeggiando per Cortona vi capita di notare che, anno dopo anno, una vecchia ragazza di 66 anni insiste ad andare in giro in pantaloni molto sfuggiti a pois o a rigoline bianche e rosse/blu, ballerine colorate o infradito stile “Positano”, potete star certi che quella sono io, la nostalgica delle feste da ballo della Casina dei tigli.
Vi chiederete cosa c’entri tutta questa lunghissima esposizione dei mie miti personali con le premesse musicali da cui ero partita con il presente articolo.
C’entra molto secondo me: è infatti tutta colpa della musica, quella suonata con talmente tanta maestria da esser capace di creare sogni e incantesimi nella fantasia di chi ascolta se, in quelle serate di ottima musica al Parterre, nella mia testa di bambina si sono impresse indelebilmente immagini e ricordi che mi hanno resa prigioniera di una vera e propria malìa.