Cortona a.d. 1430 o giù di lì…
Aggirandomi tra i corridoi del Convento di San Domenico dove qualche giorno fa sono stata chiamata per il disbrigo di una commissione, e sbirciando qua e là da quella brava ficcanaso che sono, ho avuto l’occasione di scorgere per un attimo Fra’ Angelico nell’atto di dipingere la meravigliosa veste dell’Arcangelo Gabriele in un quadro che, una volta completato, ne sono sicura, diverrà un vero capolavoro la cui fama farà il giro del mondo.
Da allora vado in giro per le botteghe dei mercanti cortonesi nella speranza di trovare una pezza di tessuto di color rosso. Non di un rosso qualsiasi però, ma di quel rosso delicato eppur così brillante dell’abito indossato da quell’angelo sublime. Voglio farmene un bel manto.
Non ne ho trovata però da Ser Cristofano di Nicolò di Bartolo che mi ha mostrato con solerzia tutto ciò di cui era fornita la sua bottega: “30 camicie scarlattine da fanciulli da chula, 40 bracie di panno cupo, 68 panno verde, 30 panno morello, 35 panno chupo, 24 panno sbiadato, 54 panno monachino, 38 panno paghonazo, 6 di Perpignano, 17 bigiello bianchetto, 16 di lino, 5 inglese e panni in telaio di lana, e lana berrettina, lana bianca, lana bigiella” ma nessuna di queste cose, è evidente, poteva minimamente servire al mio scopo.
Non ne aveva neanche Ser Antonio di Tommaso della famiglia dei Tommasi. Negli scaffali della sua bottega, ben esposte, ho visto infatti ben “500 libbre di lana maggiese, 300 libbre di lana bestugia, 2 panni bigi bruni greggi ancora al telaio, due tele bigie brune, due tele bigie bianchette grosse, 230 libbre di trama bigia” (1). Neanche queste merci, mi pare evidente, potevano fare al caso mio.
Non mi preoccupo, le Piazze e la Ruga Piana di Cortona, costellate come sono di negozi di “lanaioli”, non mancheranno certo di darmi occasione di soddisfare le mie esigenze: di mercanti di stoffe, è notorio, ce ne sono a iosa in Cortona.
Gli Ufficiali del Catasto Fiorentino che tra il 1427 ed il 1429 hanno raccolto le loro dichiarazioni patrimoniali ne hanno iscritti nei loro registri almeno 32 e da ciò che risulta da quegli incartamenti, i “lanaioli” sono la categoria più agiata e potente della città: almeno una ventina di loro detengono i patrimoni più cospicui dell’intero territorio comunale.
Un tale che conosco, un tipo bizzarro che si vanta di saper leggere nel libro del futuro, mi ha assicurato che le loro ricchezze continueranno a crescere a dismisura ancora per molto tempo ma che arriverà il momento in cui, forse tra cento anni o poco più, i loro discendenti, divenuti dei nababbi, riterranno giusto abbandonare la mercatura per dedicarsi agli studi e ad altre attività che appariranno loro meno “vili”.
Molti potranno addirittura fregiarsi di titoli nobiliari o si daranno alle alte carriere militari, alcuni diverranno eminenti prelati, illustri architetti o insigni eruditi, e ciascuno di loro nel proprio campo raggiungerà un tale prestigio che le strade ed i palazzi di Cortona, nei secoli successivi, porteranno ancora i loro nomi di famiglia: Tommasi, Laparelli, Zefferini, Sernini, Alfieri, Baldelli, Venuti, ecc..ecc..ecc..
Per ora però sono dei mercanti che il Catasto registra come “lanaioli” anche se, ad esser precisi, le ricchezze provengono molto più dalle rendite che procurano loro i grandi appezzamenti di terreno di cui sono sono proprietari, piuttosto che dagli affari che si concludono nelle loro botteghe. E ciò nonostante queste, più che semplici negozi di lane e tessuti, oltreché dei veri e propri bazar pieni di merci dei più svariati generi, siano anche delle autentiche “imprese” dove lavorano filatori, cardatori, sodatori, orditori, tintori e diversi altri operai.
L’esempio più significativo? I tre negozi di Giovanni di Tommaso di Ser Cecco Tommasi.: il Paperon de’ Paperoni locale, ammesso che ne esista uno in questo secolo, il XV° appunto.
Giovanni, che ha accumulato le sue fortune soprattutto negli anni successivi alla grande peste del 1348, ha denunciato al Catasto un patrimonio di 13.756 fiorini, mentre il suo facoltoso fratello Antonio, che lo segue immediatamente dopo nella graduatoria dei “capitalisti” locali, ne ha dichiarati soltanto 8.172 e gli altri 8 maggiori “ricconi” comunali hanno affermato di possedere capitali che ammontano al massimo a somme comprese tra i 2.000 ai 3500, dentro le mura ha soltanto il 5% dei suoi beni.
Poco importa se questo piccolo 5% significa esser proprietario di un numero di case sufficiente a “sistemare” i 23 membri della sua famiglia tutte poste nel terziere S.Maria, e possedere altre case e casupole in altre zone di Cortona, e 2 palchi, e i 3 negozi già citati che solo per il fatto di trovarsi nella Piazza e proprio nei pressi del Palazzo del Capitano del Popolo hanno un valore catastale che supera anche i 150 fiorini.
Il vero motore che fa marciare così vantaggiosamente gli interessi economici di Giovanni, e ciò accade anche a buona parte dei “lanaioli” cortonesi, è mosso dal gran giro di affari che gli procurano le innumerevoli proprietà terriere sparse per ogni dove nella Valdichiana cortonese e in alcune frazioni della montagna.
La campagna gli fornisce il frumento, il grano, il lino, l’olio, il vino, l’orzo, i ceci, le fave ecc.. ecc.. che troviamo in vendita nelle sue botteghe e dagli allevamenti dei suoi possedimenti in montagna gli provengono invece le carni delle vacche e maiali che gli permettono di rifornire alcuni dei macellai e dei beccai locali. Dallo stesso bestiame Giovanni ottiene il pellame ed il cuoio che venderà in gran parte a calzolai e sellai. Le pecore e le capre, così come i montoni, e soli di questi ne ha ben 300 quest’anno, gli forniscono la lana che una volta filata e tinta costituirà la materia prima per i telai che incessantemente tessono stoffe nei laboratori attigui ai suoi stessi negozi.
Le pezze di panno prodotte nei laboratori di Giovanni, è facile constatarlo, non sono merce di pregio adatta ad appagare i gusti delle persone più raffinate ma, d’altra parte, tra i consumatori locali di gente che può permettersi tessuti di alta qualità non ce n’è poi troppa, mentre di famiglie che per vestirsi sono costrette ad accontentarsi dell’essenziale ce ne sono tante, tantissime..
Gli Ufficiali del Catasto hanno infatti appurato che, tra i tanti poveri che costituiscono la stragrande maggioranza degli abitanti del nostro territorio, i nuclei familiari che risultano talmente poveri da esser addirittura assolutamente senza danaro sono il 5% .
Dattalo, l’usuraio ebreo che svolge professionalmente e con tanto di autorizzazione ufficiale questo “mestiere”, ha dichiarato agli Ufficiali Fiorentini di avere un gran numero di cittadini da cui attende di riscuotere i propri crediti, e tanti altri miei compaesani, a quanto risulta dagli stessi registri catastali, risultano essere insolventi oltreché nei confronti dei lanaioli, anche in quelli degli speziali, dei calzolai, pizzicagnoli, macellai, che nei loro libri contabili hanno registrato i “morosi” come “cattivi debitori”.
Abbandonando però le inutili divagazioni sulle “tasche tragicamente vuote” della gran parte della popolazione cortonese e tornando al mio giro nel “centro commerciale naturale” che si dipana nelle vie e piazze della città, ho notato che nei negozi di Giovanni di Tommaso, come del resto in quasi tutti gli altri di proprietà dei suoi colleghi, non è il titolare ad occuparsi degli avventori e a seguire l’andamento degli affari.
Giovanni lascia che a condurre le botteghe siano i figli che, come tutti i figli dei “mercatores” medievali, nel negozio vivono il loro apprendistato, l’ “iniziazione” al destino di “trafficante” che il padre ha tracciato per loro.
E proprio lui, il facoltoso possidente che più di tutti ha contribuito alla potenza economica della stirpe dei Tommasi, non contento dell’imponente mole di affari che già gli garantiscono i poderi ed i negozi di sua proprietà, è costantemente impegnato ad incrementare ulteriormente la sua ricchezza acquistando dagli agricoltori cortonesi grano, lino, robbia, guado, zafferano, e gli altri prodotti che il contado fiorentino non riesce a produrre a sufficienza, per rivenderli ai “mercatores” della città medicea.
E allora, se neanche nel negozio di Giovanni, né in quello di Antonio di Giovanni Lapini, il mercante fiorentino che ha aperto in Cortona una bottega in cui commercia prodotti importati da Firenze, e se neanche da tutti gli altri loro colleghi riuscirò a trovare un drappo di stoffa di quell’esatta sfumatura di rosso che mi ammaliata, non mi darò comunque per vinta.
Ho infatti un asso nella manica: la robbia cortonese, la rinomata polvere rossa che si ricava dalle radici della pianta tintoria che ormai da tanto tempo è un vanto ed una ricchezza per l’economia del mio Comune.
Ne troverò in quantità in ogni bottega di lanaiolo, in ogni laboratorio di tintore.
Basterà che io acquisti un drappo di tessuto di colore bianco o grezzo e, usando la giusta tecnica e dosando questa polvere con perizia e maestria, riuscirò a tingere la stoffa acquistata del rosso che voglio, proprio quello che sta usando Fra’ Angelico per la veste dell’Arcangelo Michele.
Sono certa che ci riuscirò perché la “rubia tinctorum” coltivata a Cortona, lo sano tutti, è un prodotto di eccellenza. I tessuti tinti con la polvere ricavata dalle sue radici risultano molto più belli e raffinati di quelli colorati con la “rubia peregrina” che nasce spontaneamente nei terreni un po’ umidi e nel sottobosco e che chiunque può raccogliere. Quest’ultima è la robbia selvatica che viene usata per tinger tessuti in tante altre parti della Toscana e d’Italia.
Per le botteghe dei tintori di stoffe pregiate la robbia prodotta nelle nostre campagne è una materia indispensabile: è proprio quella che fa la differenza.
Firenze che dell’arte della lana è la capitale assoluta, la pretende, insieme al grano, come merce di scambio per ripianare quel maledetto debito di 60.000 fiorini che nel 1411 noi cortonesi ci vedemmo costretti a contrarre con la città Medicea per scrollarci di dosso il giogo dell’assoggettamento a Ladislao Re di Napoli.
Anche per questo i miei concittadini rimpiangono il tempo in cui non avevamo ancora perso la nostra indipendenza e Cortona era un Libero Comune o quello in cui, più tardi, eravamo divenuti una “signoria” governata dalla stirpe dei Casali. In quegli anni avevamo una nostra moneta, la lira, il cui corso era riconosciuto in tante altre città d’Italia e avevamo la possibilità di stabilire i prezzi delle nostre merci da esportare.
Allora l’interlocutore privilegiato dei produttori e dei commercianti cortonesi era il mercato delle città umbre, nostre naturali confinanti. A queste città ci univano importanti vie di comunicazione molte delle quali passavano attraverso la montagna decretando la floridezza economica di quelle zone.
Consci dell’importanza che per il mercato locale rivestiva la “rubia tinctoria”, i nostri legislatori già nel 1325 avevano inserito nello Statuto Comunale alcune rubriche studiate “ad hoc” per proteggere questo prodotto tanto prezioso per l’economia del nostro territorio da chi cercava di contraffarlo, mischiarlo con robbia selvatica o con terra che facesse pesare di più i sacchi in cui era contenuta, contrabbandarlo, farci speculazioni disoneste ecc.. ecc.. Norme a tutela del buon nome di questo frutto delle nostre terre mai ritenute necessarie, ad esempio, per proteggere il grano benché questo fosse di gran lunga la maggior ricchezza prodotta dalla Valdichiana.
Ho sentito dire che esistono documenti del secolo scorso che provano che notevoli quantità di robbia venivano raccolte nelle zone rurali dell’Ossaia e di Montalla e, guarda caso, anche quest’anno a poca distanza da quelle terre Paolo di Giovanni di Montanare ne ha prodotta ben 2500 stai.
Già da allora, ad eccezione naturalmente delle zone paludose che anche allora occupavano per buona parte la nostra vallata, non c’era luogo della campagna cortonese in cui questa pianta rifiutasse di far crescere quelle radici rossastre tanto apprezzate: lo provano numerosi atti notarili rogati più di cento anni fa. Eccovene un paio di esempi.
Nel luglio del 1317, ad esempio, il notaio Ser Francesco di Tommasino, rogò un contratto grazie al quale un tal Junta Barberius, per il prezzo di lire 200, cedette “soda”, cioè ancora sottoterra, a Vanni di Melo Bonaguida la robbia che avrebbero prodotto in 4 “stariora” delle sue terre poste in “in contrada Camucia iusta Essem”, nei pressi cioè del fiume Esse. L’acquirente, come spesso previsto dai contratti stipulati per l’acquisto di robbia, aveva facoltà di tenerla sottoterra fino al mese di novembre o comunque, dietro il pagamento di un “annua recognizione”, fino al momento in cui le radici sarebbero giunte alla giusta maturazione.
Un altro contratto stipulato nel 1344 dimostra invece che anche un terreno più asciutto e posto in posizione lievemente collinare come quello di Cignano poteva produrre le dodici centinaia di “buona e pura robbia comunale” che Ser Restorius figlio di Berardo vendette , anche lui “soda”, ad un tale di Cortona.
Chissà invece dove era stata coltivata tutta la la robbia di cui per loro fortuna si ritrovarono ad esser proprietari Berardino e Lupo senza aver dovuto far la minima fatica né per seminarla né per raccoglierla. I due fratelli infatti, “pupilli” di Lippo, ereditarono da lui, loro zio, ben 2000 libbre di robbia già macinata, 5670 radici di robbia in ciocche, cioè in radiche, e 5 staia di seme della stessa pianta, merce inventariata e registrata in un atto stilato nel 1348 da un tal notaio che era stato incaricato di redarre l’inventario dei beni conservati nella casa di questo “previdente “ zio. “E quella non era che la prima casa” aggiunge, invidioso, chi riferisce la notizia!
A voi, allora, par mai possibile che tra non molto,ed esattamente tra neanche un paio di secoli, nessun cortonese conserverà più la benché minima memoria di quest’erba le cui radici hanno procurato tanti vantaggi economici ad intere generazioni di agricoltori e commercianti cortonesi?
Incredibile!
Eppure questa cosa assurda è sostenuta, e con gran convinzione, da quel tipo eccentrico di cui già vi ho parlato che, ben poco modestamente, afferma di saper vedere cosa accadrà nel futuro e – dice lui – senza sbagliarsi mai.
Questo profeta di cattive notizie, per ora però purtroppo mai smentito dagli eventi, afferma che in un libro che verrà pubblicato nel 1776 un illustre studioso, un certo Antonio Mariti, Accademico Georgofilo di Firenze e socio dell’Accademia Botanica di Cortona, assicurerà che al momento della pubblicazione del suo libro la tradizione della coltivazione della robbia sarà già stata assolutamente dimenticata ormai da tempi lontanissimi.
Sembra però che grazie alle sue ricerche nelle memorie del passato gli abitanti della Valdichiana dei secoli successivi verranno a conoscenza, e con gran dovizia di particolari, di quanto lontani fossero stati i tempi in cui la tradizione di coltivare quest’erba si era diffusa nel nostro territorio, di quanto la qualità della polvere tintoria ricavata dalle sue radici fosse superiore a quella prodotta dalla robbia selvatica e di come e perché l’uso di tale coltura sia stato pian piano abbandonato e, cosa ancor peggiore, totalmente dimenticato.
Spiegherà dunque in questo libro l’illustre studioso che le cause di questa progressiva decadenza saranno da ricercarsi non solo nel già citato desiderio di raggiungere un diverso prestigio sociale da parte di “ alcuni nostri uomini abbagliati da un’accorta politica” i quali “ si levarono a poco a poco e dal traffico chiudendo le Officine e i rispettivi edifizi coll’ambizione di dirsi Cavalieri e Nobili e non più Artefici o Mercanti”, procurando la “decadenza del lavorio dei panni di lana” e la conseguente chiusura progressiva delle botteghe dei tintori, ma anche – e forse soprattutto – nelle leggi protezionistiche che approvate ad hoc per impedire il libero mercato di questa merce ne limitò il commercio all’interno del territorio comunale con una sola eccezione: l’esportazione rivolta al mercato fiorentino.
Massimamente deleteria, secondo il georgofilo Mariti, sarà la legge del 28 Giugno 1462 « Bandita e Comandata per il Capitano della Guardia della città di Cortona, e del suo Contado, e Distretto per lo Magnifico ed eccelso popolo, e Comune di Firenze” che approvata dalle autorità comunali e modificata da quelle fiorentine, naturalmente a vantaggio della Città Medicea, fece sì che “non essendo più padroni, senza delitto, di disporre dei frutti dei propri terreni e trovandosi costretti a produrre le loro robbie a quel prezzo che avessero voluto pagare i tintori e i lanaioli abbandonarono tale coltivazione”.
Saputo tutto ciò, voglio ben sperare che l’infausta predizione di quell’ uomo stravagante che si ritiene un infallibile preveggente si riveli, una volta tanto, una sonora panzana e la che robbia tintoria cortonese continui ad essere per la Valdichiana, insieme al grano, al vino, all’olio, al guado (la pianta che tinge di blu) e lo zafferano, una ricchezza di cui andare orgogliosi. Ancor di più auspico che tale coltura possa remunerare per tanto tempo ancora e lautamente le fatiche gli agricoltori cortonesi.
Se però, per un’infausta sorte così non fosse, mi auguro proprio che il libro dell’esimio esperto di botanica del secolo XVIII riesca a riportare in auge i fasti di quest’erba che oltre alle stoffe potrà anche esser usata dalle dame per tingere le proprie capigliature.
Sarebbe bello, infatti, se la lettura di questo trattato riuscisse a suggerire a chi tra i posteri si renderà conto che è preferibile abbandonare le città – luoghi stracolmi di persone in cui la convivenza in spazi troppo ristretti rende impossibile scampare alle pesti ed ai morbi letali – per tornare a vivere lontano nelle campagne dove, coltivando robbia o qualsiasi altro dei prodotti della terra, per lavoro o per hobby non ha importanza, ognuno di loro potrebbe sopravvivere più serenamente evitando le tensioni procurate dalla vita frenetica e, complice un marchingegno strano dei tempi futuri che chiameranno “computer” potranno lavorare dall’interno della loro casa grazie, o in qualsiasi posto si trovino, perfino all’aria aperta grazie ad una trovata stupefacente a cui daranno il nome di “smartworking”.
Quale modo altro migliore potrebbero inventarsi per scampare, e legittimamente, alle claustrofobiche restrizioni studiate dai governanti per impedire qualsiasi contatto sociale a quei loro simili che, poveretti, ostinandosi a scegliere la vita in quei formicai chiamati città si condanneranno da soli ad esasperanti prigionie che, pare, saranno chiamate “lockdown” ?.
P.S. A tutti coloro che nel prossimo millennio si troveranno a leggere queste mie considerazioni in quella “diavoleria” a me oggi incomprensibile che sarà definita “web”, e che, increduli, vorranno sincerarsi che tutto ciò che ho qui narrato non sia il prodotto della mia fantasia di una buontempona perditempo, consiglio controllare le mie affermazioni su alcuni testi nei quali troveranno confermate le storie apparentemente inverosimili fin qui narrate, saggi che saranno stilati in un futuro molto lontano, il secolo XXI da studiosi di indubbia affidabilità: Céline Perol (1), Andrea Barlucchi (2), Dario Martini (3)
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Note:
1) Céline Perol “Cortona poteri e società ai confini della Toscana nel XV e XVI secolo” pubblicazione promossa dalla Associazione per il recupero e la valorizzazione degli organi storici della città di Cortona – Zetagraf Milano Luglio 2008
2) Andrea Barlucchi “L’economia cortonese alla luce dello Statuto” saggio introduttivo in Statuto del Comune di Cortona (1325-1380) – Edizione a cura di Simone Allegria e Valeria Capelli – Leo S. Olschki Editore 2014 Firenze
3) G. MARITI, Della robbia, sua coltivazione e suoi usi, Gaetano Cambiagi, Stamperia granducale, 1776 (presso Biblioteca comunale e dell’Accademia etrusca di Cortona). https://books.google.it/books?id=Hwa6zaWBUmAC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false
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