Se qualcuno in vena dei ricordi del Pleistocene vi raccontasse che in certe serate estive dei primi anni ‘60 ai Giardini Pubblici di Cortona, all’esterno della barriera di cannicci predisposta per quelle occasioni intorno alla pista da ballo della “Casina dei Tigli”, e più precisamente nel lato meno illuminato e nell’angolino più buio di questa, una bimba di dimensioni “mignon”, si muoveva “sculettando” alle note di “Oh Carol” di Paul Anka, di “Saint Tropez twist” di Peppino di Capri, non dovete aver dubbi, quella bambina ero io.
La stessa bambina che prima ancora di venire alla luce provocava bradisismi e terremoti nella pancia della madre non appena una musica aleggiava nell’ambiente circostante.
E nonostante già dalla tenera età abbia sempre cercato di trasmettere di me un’immagine di persona nemica delle frivolezze (non esistono foto di me bimba dove io non esibisca al fotografo sempre lo stesso piglio austero e poco accomodante) la musica, traditrice, come la malefica pozione del Dottor Jekill riusciva a portare allo scoperto quell’ “alter ego” che chissà perché tentavo ostinatamente di soffocare, la parte gaia e brillante della mia identità che per venire alla luce, come il genio dalla lampada o come il principe dal rospo, aspettava soltanto di sentire un “do”, un “la”, un “mi” vagare nell’aria ed una bacchetta battere ritmicamente sul tamburo di una batteria.
Figuratevi, allora, quale e quanta smania di muovermi a tempo di musica si impadronisse di me in quelle meravigliose sere in cui allo Chalet (altro nome con cui i cortonesi erano soliti indicare la Casina dei Tigli) avevano luogo eventi che offrivano alla gioventù l’occasione di dar sfogo alla propria esuberanza con manifestazioni di brio collettivo molto simili a quello che avete visto nel video.
In quegli anni il Parterre, soprattutto di sera, era la “la Rimini” dei cortonesi.
Il “boom economico” susseguente ai bui anni di guerra cominciava appena a farsi sentire ed erano ancora pochissime le famiglie, almeno quelle del centro storico, che potevano permettersi di andare in villeggiatura senza lasciare nessun familiare a casa come richiedevano il decoro e …. la prudenza… “Oh, quant’è ‘ bbona la cameriera… La moglie se ne va e il marito sta in città, il povero marito rimane incustodito. La moglie se ne va ma il marito pensa già a quella scappatella che da tempo vuole far. Oh quant’è bona la cameriera…”, suggeriva maliziosamente anche Domenico Modugno.
Ma non era detto che della momentanea libertà offerta ai coniugi dal soggiorno marino delle mogli potessero approfittare solo gli uomini rimasti a casa… Meglio non rischiare!
Ci si accontentava così, e anche di buon grado, dello svago gratuito “che passava il convento cortonese”: i mariti, in maggioranza artigiani o commercianti, rincasavano in tarda serata, le famiglie si riunivano per la cena e, non appena finito di rigovernare, le brave casalinghe e madri di famiglia, mettevano l’abito migliore che avevano, si pettinavano accuratamente, si agghindavano con i loro bjoux e, sottobraccio al marito, facevano l’entrata trionfale ai giardini pubblici.
Proprio come se fossero in un luogo di vacanza.
Oggigiorno, per fortuna, a quarant’anni una donna, sposata o meno, è ancora considerata poco più che una ragazza e come tale può vestirsi senza suscitare il disdegno delle lingue biforcute di paese, ma a quei tempi già soltanto lo status di “coniugata” comportava il dover rinunciare a indossare abiti vistosi, troppo colorati o “frou frou” come quelli che si vedevano nelle riviste.
Mia madre che non è mai del tutto riuscita a piegarsi alle convenzioni e per la quale indossare indumenti di colori vivaci era l’unico modo che aveva per farsi da sola allegria e non lasciarsi piegare dalle angosce della vita, si era fatta cucire per quelle occasioni un abitino dalla foggia “semplice e seria” di seta blu ma di un bel blu brillante e con tante meravigliose farfalle di tutti colori.
Ho voluto che lo conservasse per anni e anni. Nei suoi o nei miei momenti bui andavo a riguardarmelo perché quel vestito testimoniava che la sua vita non ha avuto solo amarezze e che insieme io, lei, il mio babbo e i miei fratelli, avevamo vissuto anche momenti che valevano la pena di esser ricordati come quelle semplici serate estive al Parterre. Le innumerevoli farfalle di quel tessuto simboleggiavano perfettamente la sua innata giocondità quella che neanche le difficoltà, le delusioni, i dolori, gli anni e la malattia alla fine sono riusciti del tutto a soffocare
Anche per gli uomini il ritrovarsi ai Giardini Pubblici a parlare di sport o di politica era un modo molto piacevole per evitare l’afa che nelle serate d’estate dentro le case era insopportabile, come lo era del resto anche nelle piazze e nei vicoli della città.
Le panchine intorno alla cosiddetta “vasca” erano le più ambite perché lì gli zampilli di acqua prodotti dalla “Fontana dei Delfini” procuravano una piacevole sensazione di freschezza. E poi da quella posizione si era circondati da una vista veramente rilassante. Perché voi possiate anche soltanto vagamente immaginarla ho cercato maldestramente di ricostruirla nonostante le mie scarsissime capacità tecnologiche e i rudimentali mezzi tecnici di cui dispongo
Le aiuole tutte intorno erano sempre lussureggianti poiché per Beppe Milani, il giardiniere dell’epoca, dedicarsi a loro era una passione più che un lavoro. All’esterno erano contornate da fiori che, rigogliosi di foglie ma dormienti durante il giorno, si aprivano con l’arrivo del buio e diventavano una vera festa di colori: le “belle di notte”.
Il centro delle aiuole, che cambiava continuamente di forma (a stella, a ottagono, a rombo, a cerchio ecc…), era sempre ricco di boccioli nuovi delle più diverse specie e dei più variegati colori.
“La notte è fatta per amare, me lo dicevi proprio tu…” cantava Neil Sedaka dal juke box all’esterno del locale e strascicando la nostra lingua straziava i cuori. Per coloro che si lasciavano trasportare da quella melodia la serata diveniva languidamente romantica.
“Con le pinne, il fucile e gli occhiali, mentre il mare è una tavola blu…” , “A- Abbronzatissima sotto i raggi del sole… cantava Edoardo Vianello, “Quando calienta el sol aqui en la plaja siento tu cuerpo vibrar cerca de mi…” cantavano i finti messicani Los Marcellos Ferial.
Era facile per tutti illudersi di essere al mare.
La frescura, la penombra, il rigoglio di fiori, una canzone che si librava nell’aria andando a perdersi nel buio verso la valle sottostante, tutto contribuiva a creare delle ammalianti suggestioni che a molti potevano sembrar verità. E così come quei frequentatori del parco cittadino che, ballando “cheek to cheek” mentre Nico Fidenco cantava “Ti voglio cullare cullare posandoti su un onda del mare, del mare, legandoti a un granello di sabbia così tu nella nebbia più fuggir non potrai e accanto a me tu resterai ai aiaiaiai ”, si lasciavano attrarre in un tal vortice di sognante romanticismo da illudersi di aver finalmente trovato in l’anima gemella (salvo accorgersi quando non erano più in tempo di esser caduti vittime di una crudele malìa), io che ero troppo piccola per cadere nelle trappole sentimentali, mi lasciai comunque ingannare da una canzone che mi ha fatto crescere ed invecchiare (eh gia!) con un’ erronea ed ingiusta convinzione. Per tutti questi anni ho infatti creduto che Peppino di Capri, quello che fino ad a quel momento era stato l’entusiasmante traghettatore in Italia dei nuovi eccitanti ritmi provenienti da oltreoceano, l’inventore delle giacche di lamé per uomo, l’appassionato driver di auto sportive americane, fosse divenuto il triste “sfigato” che appare nelle canzoni della seconda parte della sua carriera a causa dell’insensibilità di quella certa Roberta che non volle ascoltare l’ accorato appello, così addolorato da sembrare quasi miagolato, che il cantante napoletano le rivolgeva da tutti i juke box d’Italia “… lo so non mi credi, non hai fiducia in me… ma io non sapevo, non t’ho saputo amar…. Roberta, perdonami, ritorna ancor ti prego vicino a me…”.
Mi ero sbagliata di grosso: solo in questi giorni cercando notizie su di lui nel web ho scoperto, e ne sono rimasta sconcertata che la bella mannequin Roberta che fidandomi della canzone avevo giudicato senza cuore, colei alla quale avevo attribuito la grave colpa di aver provocato la svolta canora del “povero povero Peppino” verso il filone drammatico-sentimentale mai più abbandonato negli anni successivi, non era in verità la crudele “abbandonatrice” ma era la povera “abbandonata” che aveva dovuto subire dal cantante napoletano, suo marito, un doloroso benservito!
Non dirò a questo punto “Mai fidarsi degli uomini” perché sarebbe un’affermazione banale e scontata oltreché ingiusta nei confronti di quei pochi uomini che danno prova di essere leali ed onesti e che non possono esser mal giudicati per quei tanti, compreso i cantanti, che, infingardi, traggono in inganno non solo le mogli ma anche le bimbe ingenue come me.
L’amara esperienza personale mi fa sentire però in dovere di lanciare un monito di avvertimento alle giovani ancora single che come sono nate già “tarantolate”: non fidatevi assolutamente dei ragazzi che non appena sentono un ritmo brioso da ballare in gruppo trovano una scusa per allontanarsi dalla pista e ricompaiono solo per stringervi a sé mentre risuonano “balli del mattone” durante i quali però vi acciaccano i piedi.
Diffidate di tali soggetti e, mi raccomando, non fate l’errore di farvi portare all’altare da loro! Purtroppo saper seguire il tempo di una musica senza “pisticchiare” i piedi altrui è un dono naturale che non si acquista né con il tempo né con la volontà.
Per questi tipi ballare è un’ inutile sforzo, una vera sofferenza e voi, se vorrete loro bene, per non metterli in difficoltà, vi accontenterete per tutta la vita di guardare sgambettare a tempo di musica ragazze previdenti che non si sono accasate fino a che non hanno trovato un Fred Astaire ( le anziane) o il Ryan Gosling di La La Land (le giovani).
Una vera condanna! Pertanto, se mi incontrerete in Paradiso non fate la faccia stupita di chi si meraviglia di trovarmi lì: dovreste ormai aver capito come ho già scontato il fio delle mie colpe terrene!
Sono costretta a interrompere qui la mia ricostruzione nostalgica per non tediare i lettori che talvolta mi accusano di prolissità. Ma non illudetevi il mio è solo un arrivederci perché non voglio arrendermi al silenzio prima di esser riuscita con i miei ricordi a stimolare la vostra fantasia tanto da farvi sentire contagiati dall’allegria sprigionata dai ragazzi che ballavano al suono dei nuovi eccitanti ritmi e di avervi trasmesso il gusto di “squadrare” come se foste lì gli abiti delle ragazze ispirati allo stile di alcune giovani dive che con la loro immagine ed i loro atteggiamenti meno convenzionali trasmettevano un primo piccolo messaggio di emancipazione femminile.
Sareste curiosi di sapere i loro nomi? Leggetemi nella prossima puntata.
Per ora ciò che più di tutto spero di esser riuscita a farvi percepire è come e quanto ci si potesse divertire, in una bella serata d’estate, con solo un juke- box o al massimo un piccolo gruppo che suonava ballabili, in quella che per sentirci così più calati nello spirito vacanziero e anche per darci un certo tono potremmo definire la “piste de dance” o “dance floor” posta di fronte alla nostra “Casina dei Tigli” o “Chalet del Parterre” che dir si voglia.