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Chiatona, il mio paese

Il mio Paese inventato è quell’angolo di Puglia, inesistente o quasi sulle mappe, maltollerato dai due comuni che se ne suddividono la frazione e che sembra gareggino al ribasso; quell’angolo nel Mar Grande, che guarda all’Ilva e alle Isole Cheradi a sinistra, dalle quali vede sorgere il sole, e a Sud-Ovest intravede l’Appennino Calabro nei giorni più tersi.

Il mio Paese inventato è una striscia di terra delimitata dalla ferrovia, che ancora fende dune e macchia, perfette come in un manuale sugli ecosistemi. Oltre (e a volte quasi dentro) le rotaie c’è il bosco di pini. Il mio Paese inventato non l’ho inventato io, ma qualche ardito imprenditore che, a fronte di uno stabilimento balneare, per decenni l’unico, ha violentato un paradiso, erigendo casupole a 30 metri dal mare. E’ un paese inventato e immaginario, Chiatona, come Macondo, nel quale non è mai stato sepolto nessuno (salvo forse qualche cane) e, dunque, senza morti non ci sono radici e non esiste neanche il luogo stesso.

Tra gli Aureliano e le Amaranta di Chiatona c’è la mia famiglia, ormai da quasi settant’anni, che malgrado le diaspore per l’Italia ancora inspiegabilmente si riconosce in questo non luogo assurdo. E, a cinque metri dal passaggio a livello, gli aficionados miei consanguinei dormono sonni beati, mentre il treno sembra sconquassare le mura.

A Chiatona inedia e pigrizia convivono con sensazioni fisiche irresistibili, a tratti brutali. Il profumo della pineta, carica di rosmarino e mirto, è uno schiaffo che stordisce la mente e i sensi; la salsedine inebria e rigenera nei pomeriggi di scirocco e il sole non concede tregua in questo luogo utopico che guarda inesorabilmente a Sud.

E mentre la Natura, ancora selvaggia nel Terzo Millennio, sfida l’Italsider e l’abusivismo, le petroliere e i “bombaroli” pescatori di frodo, facendo mostra del catalogo della Fauna marina costiera da un lato e di poiane, volpi, upupe e cinghiali dall’altro, ecco sopraggiungere l’altra Fauna, quella del primo entroterra. Famiglie con esponenti di quattro o anche cinque generazioni, armati di frigoriferi si fa per dire portatili, barbecue, intere casse di birra (rigorosamente Raffo), cocomeri, ombrelloni, tende da campeggio in cubatura e quantità variabili; non algide mogli lanciano proclami ai baldi consorti in oscure favelle, per indicare il corretto posizionamento degli ammennicoli da campo:”Ne pot’ sté ‘ddà, mitt’ ‘ddà” [Non è possibile posizionarsi in cotal guisa, è preferibile modificare l’ubicazione]. Nel castrum da spiaggia trovano posto genitori incuranti di bambini che scompaiono nei flutti, catanonni con il respiratore e sulla sedia a rotelle, teen-agers promessi sposi e, per tutti, grammedd’ a portata di mano. Cos’è la grammedd’? E’ uno speciale coltellino atto ad aprire le valve del mollusco simbolo della Città dei due Mari, ovvero la cozza; grazie a questo strumento di precisione, il suddetto bivalve, ancora vivo, viene aperto e la parte molle raccolta e consumata seduta stante, nella concezione pugliese di fast-food. Non mancano poi le focacce (secondo Gianrico Carofiglio ed anche secondo me, una delle cose più buone al mondo), in quantità minima di un paio a testa.

In particolare due sono le circostanze in cui si osserva l’invasione più massiccia, ovvero le notti di Ferragosto (prima e dopo) e soprattutto la notte erroneamente considerata di San Lorenzo, cioè quella tra 10 e 11 agosto. Già un paio di decenni fa si usava recarsi a gruppetti in spiaggia ed accendere dei falò (rigorosamente fuori legge) per stare, come nella più classica immagine dell’estate, avvolti negli asciugamani dopo il bagno notturno, a cantare ed a guardare il cielo in cerca di stelle cadenti. Memorabile una mia disavventura dell’epoca: attenta ad evitare le braci più in vista, atterrai invece sui carboni appena coperti dalla sabbia, con conseguenti ustioni e gasteme. Impeccabile l’esclamazione del grezzo di un falò adiacente:”Mocc’, e c’ sì, Giucas Casella?” [Poffarre, quale resistenza al calore, unita a sprezzo del dolore, confrontabile solo con gli asceti tibetani e pochi altri!].Da allora la mia famiglia commemora San Giucas, sostituendolo nel calendario al Santo titolare e facendomi gli auguri in quell’occasione, invece che per il compleanno.

Ecco, sarò una nostalgica che rievoca con il prefisso “ai miei tempi”, ma ora di falò non ce n’è quasi nessuno: non ce ne sarebbe lo spazio. La spiaggia è coperta a tappeto da tende così vicine tra loro, da rendere impossibile che tutti gli occupanti possano sdraiarsi supini a contemplare la volta stellata, sarà per questo che gli ipertecnologici prediligono osservarla attraverso qualche App del cellulare. E, d’altra parte, di stelle se vedono ben poche, a causa dei fari alimentati dai gruppi elettrogeni, indispensabili per illuminare a giorno la spiaggia, onde consentire ai pargoli seienni di baloccarsi financo alle due di notte, dilettandosi nello sport locale, ovvero il lancio micidiale del pallone con tutta la forza del calcio, alla ‘ndò cojo, cojo. (Anche di quello sono stata vittima, ahimè). A rafforzare la non modesta illuminazione casalinga, provvedono i fari delle discoteche avventizie animate da penosi DJ, eredi di già penosi colleghi storici, quali il celeberrimo Chewingum, un tizio poraccissimo, con l’aria da commercialista ed una misteriosa valigetta al seguito che, secondo la leggenda, conteneva un campionario inutilizzato di preservativi. Mentre i “discofori” incitano all’iperattività scomposta (leggasi danza), con accento terrificante e battute che indurrebbero al suicidio qualsiasi persona sobria, sull’arena si transita senza soluzione di continuità, da un lido all’altro, dalla disco più all’avanguardia a “Zitella”, perla della tradizione partenopea, che offusca il compianto Pinuccio e i 99 Posse. E proprio lì, dove quest’anno erano allocate le lampade verdi in stile Commodore 64, che ritmicamente scandivano i versi leggendari del “Ballo del cavallo”, si trova il cuore del parcheggio gestito da quello che chiameremo Cosimo. Nato come posteggiatore abusivo, ma di antica stirpe, datosi che il padre era sua volta pastore abusivo (in che senso?), negli anni ha conquistato uno spiazzo e le autorizzazioni ad esercitare la nobile arte con dinamismo e grinta, incurante del sole e della polvere, intonando i grandi classici dell’italica tradizione, da “Felicità” a “Mamma Maria”. Attaccato alla famiglia, come un uomo del Sud deve essere, il volitivo Cosimo sfoggia un look da Texas Ranger de noantri, con baffone e cappellone di paglia e non disdegna di approcciare il gentil sesso, come quando ad una leggiadra pulzella, ora rude marinaio, con delicato motto le si rivolse: “Sei una ragazza molto carina: andiamo dietro a quella frasca”. Ma, tornando alla spiaggia, passata la follia notturna e lasciato un tappeto ormai insanabile di schifezze in riva al mare, noi Bruno/Buendìa ci ritroviamo di nuovo a tu per tu con il Mediterraneo.

Tra un “auànd'” e un “trmìn”, Chiatona-Macondo è così: prendere o lasciare. Io prendo. E lascio ogni volta un pezzo di me.

Loredana Bruno

Naturalista per formazione, lettrice appassionata e scrittrice velleitaria, quando non veste i panni di WonderMamma alleva in casa millepiedi e blatte, con raccapriccio del consorte. Pronta a gettarsi in battaglie sanguinose (con esiti non sempre edificanti), aspira a diventare uno dei capipopolo della Magliana, quartiere della periferia di Roma, dove vive con marito e figli.

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Loredana Bruno

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