Residui di potatura derivanti da attività di manutenzione del verde: rifiuti o no
Il ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare chiarisce in una nota quando sfalci e potature non sono da classificare come rifiuti rispondendo ad un quesito formulato dalla Federazione Italiana Produttori di Energia da Fonti Rinnovabili (FIPER) sulla classificazione dei residui di potatura derivanti da attività di manutenzione del verde.
La Federazione, lamentava la disomogenea applicazione della normativa sul territorio nazionale, e chiedeva al Ministero un chiarimento a proposito. Il Ministero ha predisposto un’articolata risposta dalla quale emerge che l’art. 185, comma 1, lettera f) del D.lgs. 152/2006 afferma che non si applica la Parte IV del decreto a “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo e forestale naturale e non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”. Ciò significa che il Codice Ambientale non considera rifiuti gli sfalci e i residui di potatura prodotti nell’ambito di un’attività agricola, quando impiegati in agricoltura o per la produzione di energia, purché l’impiego non comporti rischi o danni per l’ambiente e per la salute. Ne consegue che l’art 185 comma 1 lettera f non possa essere applicato nel caso di sfalci, potature ed altri materiali non provenienti da attività agricola. In questo caso non ci si trova in modo automatico di fronte ad un rifiuto in quanto è possibile avvalersi dell’art 184 bis, che disciplina i sottoprodotti. Tale norma afferma che “è un sottoprodotto e non un rifiuto, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, ed il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza o oggettoè certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi,la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale, l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà impatti complessivi negativi sull’ambiente e la salute umana”
In conclusione, chi si trova a detenere sfalci e potature, potrà non classificarli come rifiuti se sussistono le condizioni dell’art 185 del Codice Ambientale, o, in mancanza (ad esempio qualora l’attività di provenienza non sia agricola o la destinazione non sia in agricoltura o nella produzione di energia) gestirli come sottoprodotti, purché vengano soddisfatti tutti requisiti previsti dall’art 184 bis del Codice.
PRESTO LE STRADE IN PLASTICA?
L’apertura delle città olandesi all’innovazione nel campo dei trasporti e della mobilità sostenibile non è certo una novità, ma il progetto della VolkerWessels è davvero un cambio di paradigma, un nuovo modo di coniugare riciclo, abbattimento delle emissioni e ottimizzazione dei costi di produzione, installazione e manutenzione. La rivoluzionaria idea, attualmente al vaglio del consiglio comunale di Rotterdam, è un’alternativa ecologica all’asfalto. Secondo quanto rivelato in una conferenza stampa di alcuni giorni fa dalla VolkerWessels, le strade del progetto PlasticRoad saranno realizzate interamente in plastica riciclata e contribuiranno ad abbattere una piccola parte delle 1,6 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 che la posa di asfalto provoca annualmente nel mondo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i moduli di Plastic Road necessiteranno di una minore manutenzione e sono stati pensati per resistere a condizioni climatiche estreme ovvero a un range di temperature comprese fra i –40° e i +80°. L’altro elemento estremamente interessante è la facilità nella posa che sarebbe molto più veloce rispetto all’asfalto e avrebbe un ciclo di vita triplo rispetto alle attuali mescole. Inoltre vista la loro leggerezza, oltre a ridurre il carico sul terreno Plastic Road renderebbe molto più facile installare cavi e condutture sotto la propria superficie. Il fatto di poter trasportare e installare i moduli prefabbricati porterà a tempi di costruzione inferiori e, quindi, a una minore congestione delle strade.
Geotermia, dalla Toscana alle Ande
Impianto geotermico a Cerro Pabellón in Cile di Enel Green Power. E’ il primo del Sudamerica, la compagnia petrolifera statale cilena, hanno dato il via ai lavori per la costruzione di Cerro Pabellón, il primo impianto geotermico di tutto il Sud America. Cerro Pabellón, situato nel comune di Ollague, nella regione di Antofagasta, in pieno altopiano andino, sarà anche il primo impianto geotermico al mondo costruito a 4.500 metri sopra il livello del mare. L’impianto, detenuto da Geotérmica del Norte SA, società controllata al 51% da Enel Green Power Chile Ltda e partecipata al 49% da ENAP, è composto da due unità da 24 MW per una capacità installata totale lorda di 48 MW. Cerro Pabellón, una volta in esercizio, sarà in grado di generare circa 340 GWh all’anno, equivalenti al fabbisogno di consumo annuale di quasi 165 mila famiglie cilene, evitando così l’emissione in atmosfera di più di 166 mila tonnellate di CO2 all’anno. Si tratta di «Un progetto il cui know how è sviluppato in Toscana, tra le aree geotermiche di Larderello, Castelnuovo Val di Cecina, dell’Amiata, di Monterotondo Marittimo, Monteverdi Marittimo, Montieri, Radicondoli, Chiusdino e di tutti i territori geotermici compresi tra le province di Pisa, Siena e Grosseto
Rifiuti, i perché dietro le critiche alla raccolta differenziata porta a porta
Il presidente di Geofor Spa Marconcini attraverso l’intervista rilasciata a report ci spiega il perché e comunque aggiunge differenziare è un mezzo al fine di riciclare più che si può. Alla domanda: La raccolta differenziata porta a porta viene spesso presentata, di per sé, come la soluzione al ‘problema dei rifiuti’, ma una volta introdotta viene bombardata da pesanti critiche quando non ostacolata. Perché questa forbice, secondo lei? «Perché sono sbagliate le forbici. Proviamo a prenderne di più adatte. Presentare il porta a porta come la soluzione al problema dei rifiuti è sbagliato per due motivi: il primo perché la raccolta domiciliare non è un fine ideologico assoluto, ma un mezzo per differenziare. E differenziare è a sua volta un mezzo al fine di riciclare più che si può: materia sopratutto, e poi anche energia, in base alla gerarchia europea dei rifiuti. Il secondo motivo è che i rifiuti non sono solo un problema: sono ciò che resta del nostro modo di produrre e di consumare, più o meno giusto. I rifiuti sono anche una risorsa. Gli organi di comunicazione ormai associano i rifiuti solo a cose negative: rifiuti uguale malaffare. O in questo caso rifiuti uguale caos creando un altro binomio negativo, poi collegano questo binomio al sistema di raccolta porta a porta e il gioco è fatto. Tutte le volte che si parla di rifiuti vengono da fare gesti apotropaici. Intendiamoci bene: non è che i rifiuti non siano collegabili al malaffare che va più duramente combattuto o al disordine, che va risolto, anzi! Ma bisogna vedere in che percentuale e se ciò sia un fatto ineluttabile. Allora magari si scoprirà che anche la stragrande maggioranza dei rifiuti speciali, spesso oggetto di indagini giudiziarie, sono riciclati (dati Ispra) e che una gran parte del Paese (al Centro nord, ma anche al Sud) pratica il porta a porta con esiti positivi ed alte percentuali di raccolta differenziata. Tra l’altro non si capisce perché ad esempio sia stato meno applicato il binomio rifiuti/caos al sistema di raccolta stradale, con i cassonetti, che non mi pareva perfetto. Potrei fornire immagini eloquenti di ciò: cassonetti straripanti, rifiuti abbandonati nelle piazzole, per non parlare di ciò che si trovava dentro ai cassonetti, rifiuti impropri compresi. Invece ci si accanisce a livello mediatico proprio contro il più governato e regolato dei sistemi di raccolta che è senz’altro il porta a porta, finendo per giustificare o compatire i cattivi comportamenti dei cittadini. Oltretutto spesso di un numero esiguo e minoritario di utenti, che così si sentono “spalleggiati” e quasi autorizzati a fare i loro porci comodi a danno della comunità, “liberando” le loro case, ma sporcando la città che è la casa comune, di tutti.
“Solare, solare dappertutto”: lo scenario energetico al 2040 secondo Bloomberg
Si prevede che il costo degli impianti fotovoltaici cali del 48% e quello dei parchi eolici del 32%. Al 2040 le rinnovabili produrranno quasi la metà dell’elettricità mondiale. Il boom si avrà soprattutto per il FV su tetto, che coprirà il 22% dei consumi elettrici europei e il 13% di quelli mondiali. Entro il 2040, il mix elettrico mondiale sarà molto diverso da come lo conosciamo ora: se adesso è dominato dalle fonti fossili, che pesano per quasi tre quarti della potenza totale, nei prossimi 25 anni il 60% circa delle nuove installazioni verranno dalle rinnovabili, portando il il contributo delle fonti no-carbon al 56% della potenza totale (vedi grafico sotto). A crescere più di tutti sarà il fotovoltaico, soprattutto su tetto. Le fonti pulite saranno spinte dalla loro convenienza economica, alla luce dei forti cali dei prezzi previsti. Ma il cambiamento non sarà abbastanza rapido da consentire la decarbonizzazione necessaria per affrontare la sfida clima: le fossili – per l’inerzia insita nel settore elettrico e le riserve a basso prezzo presenti in diversi mercati – continueranno ad avere un peso troppo grande, anche se come visto quasi dimezzato rispetto all’attuale. È questo in estrema sintesi il futuro dell’energia per come lo vede Bloomberg New Energy Finance (BNEF) nel suo nuovo New Energy Outlook. Come detto, l’accelerazione delle fonti pulite secondo BNEF è destinata a continuare: peseranno per quasi il 60% dei 9.786 GW di nuova potenza che saranno installati nei prossimi 25 anni e per due terzi dei 12.200 miliardi di dollari che si investiranno. Le rinnovabili al 2040 incideranno per il 46% della produzione mondiale, quelle non programmabili passeranno dall’attuale 5% al 30%. Le fossili manterranno comunque una bella fetta, con il 44% della produzione, cosa che farà aumentare nel complesso del 13% le emissioni mondiali. Sole e vento, si prevede, saranno sempre spesso l’opzione più economica anche senza incentivi: entro il 2014 i costi totali dei progetti eolici, secondo BNEF, caleranno del 32% e quelli degli impianti FV del 48%. L’eolico, che già ora in vari contesti batte le fossili più economiche, entro il 2026 vincerà ovunque, mentre per il FV utility-scale il sorpasso assoluto arriverà al 2030. Nei Paesi OCSE le rinnovabili entro 25 anni, si stima, peseranno per il 54% di tutta la potenza elettrica, mentre ora sono a circa un terzo. A proliferare nei Paesi sviluppati sarà soprattutto il fotovoltaico di piccola taglia: si prevedono 882 GW di nuova potenza nei prossimi 25 anni.
Rinnovabili in autoconsumo, “Italia a rischio infrazione UE”
La denuncia in un’interrogazione parlamentare. Al centro della questione i cosiddetti sistemi di distribuzione chiusi: il vuoto normativo attuale, colmato da una controversa interpretazione dell’Autorità, li rende quasi impossibili da realizzare, contraddicendo le norme europee sulla promozione di fonti rinnovabili e autoconsumo. Da una parte le norme comunitarie che ci impongono di promuovere l’autoproduzione di energia pulita, ad esempio obbligando ad installare potenza da rinnovabili sugli edifici nuovi o sottoposti a grandi ristrutturazioni, dall’altra un vuoto nella normativa italiana che lo rende quasi impossibile in molte situazioni. Una situazione che potrebbe portare ad una procedura di infrazione europea nei confronti del nostro Paese. Al centro della questione ci sono i cosiddetti sistemi di distribuzione chiusi o SDC. In sintesi: situazioni come centri commerciali, mercati generali, aeroporti, in cui più utenti dividono la stessa rete privata non possono essere considerati SEU, cioè sistemi efficienti di utenza. Come chiarito anche da una recente risposta del MiSE, i sistemi estesi che, di fatto, sono multicliente (quali i centri commerciali, gli ospedali e gli aeroporti, comprensivi di alberghi, parcheggi e negozi) sono da classificare – specifica anche una nota interpretativa (22 gennaio 2010) della Commissione europea – tra i sistemi di distribuzione chiusi. Il problema è che in Italia queste configurazioni sono in un buco nero normativo: l’Autorità per l’Energia nel documento di consultazione 644/2014 scrive che il mancato completamento del quadro normativo e in particolare la necessità che ci sia per i sistemi di distribuzione chiusi il rilascio esplicito di una subconcessione ne impedisce la realizzabilità (salvo il caso in cui SDC sia realizzato in accordo con l’impresa distributrice locale e la successiva autorizzazione del Ministero dello sviluppo economico).Con una segnalazione (la n. 348 del 2014 del 17 luglio 2014) l’Autorità ha peraltro chiesto indicazioni al Governo rispetto alla disciplina degli SDC, senza al momento avere ottenuto risposta. In particolare, “entro il 30 settembre 2015, sulla base delle istruzioni dell’Autorità contenute nelle Faq pubblicate il 12 giugno 2015, un grande numero di operatori sarà costretto a chiedere la disconnessione dalle attuali reti private interne alimentate in autoconsumo per assumere energia direttamente dalla rete pubblica quali utenze virtuali, in quanto non è stata prevista dall’Autorità la possibilità di collegare un SEU ad un SDC.” “La promozione e il sostegno della generazione distribuita tramite autoconsumo da fonte rinnovabile e l’efficienza energetica – concludono Girotto e Castaldi in una nota – sono gli elementi essenziali per rafforzare la sicurezza energetica e raggiungere gli obbiettivi europei di riduzione delle emissioni per far fronte agli effetti dei cambiamenti climatici. E l’installazione di impianti sostenibili sui nuovi edifici non è solo consentita dalla norma europea, ma addirittura è un obbligo. Cosa aspetta Renzi fare chiarezza?”
In Toscana ,migliora la qualita’ delle acque
Il Rapporto Arpat registra lievi miglioramenti: nel 2014 ci sono state 82 irregolarità in 47 impianti. L’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (Arpat) ha pubblicato il rapporto “Depuratori di acque reflue urbane Risultato dei controlli agli scarichi Anno 2014” che dà conto dell’attività svolta e delle irregolarità riscontrate, con un focus su ciascuna delle 10 province toscane. Arpat spiega che «Il controllo della conformità degli scarichi da depuratori di acque reflue urbane con potenzialità maggiore di 2.000 abitanti equivalenti (AE), è eseguito ai sensi del D.Lgs 152/06 parte III e del Regolamento Regionale DGRT 46/2008 e s.m.i. Nel corso del 2014 sono stati controllati 200 depuratori, effettuando 668 controlli allo scarico per oltre 5000 determinazioni». Rientrano nel protocollo di controllo 177 impianti su 200, relativi a tutte le province della regione con l’esclusione di Massa Carrara. Arpat dice che «Le irregolarità registrate nel corso del 2014 sono state 82, sia di carattere amministrativo che penale, e hanno riguardato 47 impianti. La maggior parte delle irregolarità sono state riscontrate in impianti delle province di Lucca e di Massa Carrara, a seguire le province di Siena e di Pisa».bLe comunicazioni di reato, relative a 7 impianti, rappresentano il 3,5 % sul totale degli impianti controllati. le irregolarità segnalate diminuiscono leggermente (10%) rispetto al periodo 2012-2013 mentre rimane inalterata la percentuale di impianti con irregolarità segnalate (circa 23%). Nel 2014 sono stati effettuati circa un centinaio di controlli presso attività produttive/industriali che scaricano in corpi idrici superficiali ed altrettanti presso ditte che scaricano nelle fognature pubbliche Arpat dice che sono «Abbastanza elevate le irregolarità riscontrate, 31 nel primo caso e 38 nel secondo». I controlli sull’utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione ed effluenti di allevamento hanno interessato più di 40 aziende agricole con 10 irregolarità riscontrate.
Ecomafia 2015, il dissesto normativo colpisce anche in Toscana
Nel rapporto Ecomafia 2015, Corrotti, clan e inquinatori. I ladri di futuro all’assalto del Belpaese, recentemente presentato da Legambiente a livello nazionale, la Toscana occupa suo malgrado una posizione di rilievo. A testimoniarlo è il Cigno verde regionale, che ha presentato oggi a Firenze il focus toscano del dossier. «Nonostante si registri un calo in valore assoluto delle infrazioni (1.695, corrispondente al 5,8% sul totale dei reati accertati su scala nazionale) – si legge nella nota diffusa da Legambiente Toscana – sono ancora una volta i numeri a confermare la Toscana (7° nella classifica nazionale) tra le regioni più colpite dalla criminalità ambientale, subito dopo quelle a tradizionale presenza mafiosa: Campania, Calabria, Puglia, Sicilia, e le regioni Lazio e Sardegna». Tra le poche buone notizie sottolineate da Legambiente Toscana in Ecomafia 2015 figurano «la drastica riduzione del numero di incendi nelle superfici boschive», calo attribuito principalmente a un fattore esogeno – le piogge “anomale” che hanno caratterizzato la scorsa estate – e «un lieve calo per i reati nel ciclo dei rifiuti», mentre il settore più redditizio «per le organizzazioni criminali è stato quello agroalimentare». Valutazioni messe in fila con la collaborazione delle forze dell’ordine, che non rassicurano il presidente di Legambiente Toscana, Fausto Ferruzza: «Nonostante il lieve miglioramento, la Toscana non può rallegrarsi. Siamo sempre nella fascia più appetita dai criminali ecomafiosi, non possiamo quindi permetterci il lusso di abbassare la guardia. Magistratura, forze di polizia, società civile, tutti assieme, dobbiamo fare ciascuno nel proprio ambito la nostra parte». Nel nostro piccolo riteniamo utile approfondire un caso ritenuto emblematico in tema di ecomafia, ovvero la cosiddetta “Rifiuti Spa in Toscana”, che «dal 2002 a oggi ci dice che sono state concluse 48 indagini per traffico organizzato di rifiuti, che hanno coinvolto a vario titolo diverse aziende toscane». In Ecomafia 2015, in particolare, si sottolinea come nonostante il lieve miglioramento quello del ciclo dei rifiuti «resti un settore ancora dolente, dove la nostra regione scende in positivo rispetto all’anno precedente occupando il 7° posto e raggiungendo però, anche nel 2014, cifre preoccupanti con 365 reati accertati nel 2014, il 5% del totale nazionale, 347 persone denunciate, 4 arresti e 105 sequestri effettuati».
Ma quanta acqua mangiamo?
In Italia il consumo di acqua raggiunge i 152.000 litri annui per abitante. Un dato che riflette però il consumo riferito solo all’acqua che utilizziamo per usi domestici (bere, cucinare, lavare ecc.), mentre in realtà l’acqua che consumiamo è molta di più ed è contenuta in maniera invisibile negli alimenti che mangiamo, poiché è stata utilizzata per produrli. Non riusciamo a percepirla perché è acqua che letteralmente “mangiamo”, nutrendoci. Grazie al concetto di impronta idrica possiamo misurare i consumi globali di acqua nella vita di tutti i giorni scoprendo così di utilizzare tra i 2.500 ai 4.000 litri al giorno a testa, a seconda del tipo di regime alimentare personale e della quantità di proteine animali che consumiamo. Se poi aggiungiamo anche le perdite di alimenti che avvengono durante la filiera alimentare e che non raggiungono mai la distribuzione, il bilancio sale a 1.226 milioni di metri cubi di acqua all’anno solo in Italia: una cifra comparabile a un decimo del fabbisogno minimo di acqua potabile di tutta la popolazione africana, le cui difficoltà di accesso all’acqua sono a tutti note. Questi sono i dati che ha rivelato Marta Antonelli, co-autrice e co-curatrice insieme a Francesca Greco del libro “L’acqua che mangiamo. Cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamo” (Edizioni Ambiente, 2013), è importante far conoscere questi dati e far comprendere quanto le nostre scelte alimentari incidono sul fabbisogno idrico mondiale e come, con i dovuti accorgimenti, i prelievi idrici potrebbero essere anche di molto ridotti. Per esempio, si potrebbe inserire l’impronta idrica sulle etichette dei prodotti, influenzando positivamente le scelte consapevoli dei consumatori nell’ambito dei propri consumi. Anche l’educazione ambientale gioca un ruolo determinante e gli alunni vanno guidati ad utilizzare beni e alimenti sempre più rispettosi dell’ambiente anche dal punto di vista dell’impronta idrica, in modo da farsi carico della tutela di una risorsa, come quella idrica, sempre più scarsa e preziosa.
Chi differenzia con noi?
A Bologna help-desk di dialogo, monitoraggio e informazione per migliorare la raccolta differenziata e ridurre gli abbandoni dei rifiuti. Chi vuole sapere come preparare al meglio i cittadini a un nuovo sistema di raccolta differenziata può guardare il quartiere Savena di Bologna. È qui che, per ridurre la produzione di rifiuto indifferenziato, l’Amministrazione comunale ed Hera hanno dato il via a un sistema sperimentale di raccolta a cassonetti dotati di specifica “calotta” dedicati ai rifiuti non riciclabili. Per favorire lo start-up di questo nuovo servizio è stato attivato uno specifico help-desk per monitorare e informare la cittadinanza nei pressi delle “stazioni ecologiche di base”, unico punto di raccolta per i principali materiali (carta, plastica, vetro e lattine, organico e rifiuto indifferenziato). Quotidianamente un tutor ambientale di la lumaca e Consorzio Concerto (rete nazionale Achab Group) è a disposizione per rispondere alle richieste dei cittadini, raccogliere eventuali segnalazioni e dare utili consigli per effettuare al meglio la raccolta differenziata. Il servizio di controllo e informazione, che è partito lo scorso maggio e proseguirà per tutto luglio, si basa sul dialogo, sulla comunicazione e sul coinvolgimento attivo della comunità per ottenere i migliori risultati in termini di adesione al servizio. Il sistema di conferimento con calotta responsabilizza maggiormente i cittadini perché regola l’accesso ai contenitori stradali, limitando fisicamente la quantità di materiale da inserire nel cassonetto dell’indifferenziato, in modo da ridurre il rischio che questo diventi uno dei modi più “semplici” per liberarsi dei rifiuti, anche ingombranti. Risulta quindi fondamentale dare una corretta informazione per limitare gli abbandoni dei rifiuti e aumentare i conferimenti corretti. A Bologna ogni giorno si producono 1,5 kg di rifiuti a testa, una quantità significativa che, se differenziata correttamente grazie a una giusta informazione, permette di aumentare il recupero di materia, ridurre la quantità di rifiuti indifferenziati e il loro conseguente costo di smaltimento, oltre che di diminuire le emissioni di CO2 prodotte per smaltirli.
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