La Toscana è stata tra le prime regioni italiane a dare attuazione alle leggi nazionali che finanziavano interventi nel settore (L.208/1991), e oggi punta a realizzare una vera e propria rete regionale di mobilità ciclabile, che segua i percorsi dei fiumi, delle antiche vie di pellegrinaggio e che attraversi e colleghi le numerose città d’arte toscane. Per la loro realizzazione finora la Regione ha stanziato 40 milioni di euro, con la volontà di estendere il suo impegno anche alla fase di manutenzione delle ciclovie di interesse regionale già esistenti e di quelle in corso di realizzazione: «Nel 2018 l’impegno economico della Regione – spiega l’assessore regionale ai Trasporti Vincenzo Ceccarelli – è stato di 225 mila euro, a fronte di 340mila euro di investimenti complessivi nella manutenzione delle ciclovie esistenti». Adesso l’obiettivo è quello di garantire «una manutenzione omogenea ed efficace su tutte le ciclovie di interesse regionale – continua Ceccarelli – per questo la Regione ha deciso di contribuire a sostegno dei costi di manutenzione, ordinaria e straordinaria, nella misura del 60%, in collaborazione con gli enti locali territorialmente competenti. Tutto questo attraverso accordi già sottoscritti con i Comuni attraversati dai tratti già realizzati e che saranno poi estesi a tutte le ciclopista di interesse regionale in via di realizzazione. Sempre nell’ottica di una maggiore efficacia degli interventi, in ogni accordo è individuato un ente capofila che coordinerà le azioni di manutenzione».
Il 31 dicembre 2018 avrebbe potuto (e dovuto) essere un giorno importante per delineare le ambizioni del nostro Paese in fatto di lotta ai cambiamenti climatici e transizione energetica: entro la fine dell’anno appena conclusosi era infatti prevista la redazione del Piano nazionale energia e clima, il documento attraverso il quale l’Italia deve indicare il percorso scelto per raggiungere i target comunitari in materia al 2030. Il termine fissato è scaduto, ma ad oggi del nostro Piano nazionale non c’è notizia. «L’Italia ha annunciato che uscirà dal carbone entro il 2025 e che sta lavorando al Piano energia e clima. Si tratta del Piano che, in linea con gli Accordi di Parigi, dovrà tracciare in dettaglio la strategia energetica del Paese nei prossimi anni e che deve essere inviato alla Commissione europea entro il 31 dicembre del 2018. Un documento di grandissima rilevanza, che ridefinirà le nostre politiche industriali e che accompagnerà una transizione profonda dell’economia. Purtroppo ad oggi di questo Piano sappiamo poco o niente – confermava appena tre giorni fa Andrea Orlando, ex ministro dell’Ambiente – e su di esso non si è generato un dibattito pubblico consapevole delle implicazioni che avrà per il futuro del Paese». Un silenzio preoccupante, dato che le ultime notizie nel merito offerte dalle forze politiche di maggioranza non sono rassicuranti. Per quanto riguarda ad esempio le fonti rinnovabili la direttiva Red II approvata in sede europea lo scorso anno prevede che entro il 2030 queste dovranno soddisfare almeno il 32% dei consumi finali lordi dell’Ue.
Da tutte le Regioni e le Province autonome italiane è arrivato ieri un no chiaro e tondo allo schema di decreto Fer 1, elaborato dal ministero dello Sviluppo economico (Mise) per disegnare i nuovi incentivi dedicati alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. La Conferenza unificata – sede congiunta della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza Stato-Città ed autonomie locali – ha infatti espresso parere negativo e, pur «non essendo vincolante, questo parere negativo non potrà essere ignorato dal Governo. È significativo che in prima fila contro lo schema di decreto ci siano due delle aree a maggior tasso di sostenibilità di tutto il Paese, ovvero la Toscana e il Trentino Alto Adige, alle quali si sono unite tutte le Regioni italiane. Il parere negativo non solo è dovuto per questioni di merito ma anche per la totale chiusura manifestata dai ministeri competenti nei confronti delle richieste delle Regioni e delle Province autonome.
C’è una “economia circolare” cui raramente si parla, e che il nuovo rapporto L’Italia del riciclo – presentato oggi a Roma – ha il merito di mettere chiaramente in evidenza: è quella dei rifiuti portati in giro in lungo e in largo nel nostro Paese, movimentati generalmente perché sul territorio dove vengono prodotti non ci sono gli impianti di prossimità necessari a gestirli secondo sostenibilità. Si stima così che in un solo anno (dati 2016) i rifiuti italiani – urbani e speciali – abbiano percorso complessivamente 1,2 miliardi di km su territorio nazionale, il che equivale a percorrere circa 175.000 volte l’intera rete autostradale italiana.
Si tratta di un fenomeno in crescita (rispetto al 2012 i km percorsi nel 2016 aumentano del 12%), che affonda le radici in un paradosso. Gli impianti industriali necessari a gestire lungo tutta la filiera i rifiuti prodotti da imprese e cittadini italiani scarseggiano, e di nuovi è difficile realizzarne spesso a causa della contrarietà manifestata da comitati (e politici) locali, col timore che tali impianti celino nuovi impatti ambientali anziché soluzioni. I rifiuti però, specchio dei nostri consumi, vengono comunque prodotti e per trovargli una qualche (legale) allocazione iniziano il loro pellegrinaggio per le strade del Paese.
Un approccio che non risolve il problema ma lo sposta soltanto, e che non ha niente a che vedere con la sostenibilità: considerato che il 23% dei rifiuti viene movimentato oltre i 100 km di distanza, e che complessivamente – come già accennato – in un solo anno sono 1,2 miliardi i chilometri macinati, sarebbe utile domandarsi quanto tutto questo incida in termini di impatti ambientali e sanitari. Un piccolo indizio arriva dall’Agenzia europea dell’ambiente, secondo la quale l’inquinamento atmosfericoin Italia miete 84.300 vite l’anno, e tra le sue primissime cause (certifica l’Ispra) c’è proprio il traffico veicolare.
Non tutte le aree del Paese, naturalmente, hanno le stesse caratteristiche. L’economia dei rifiuti al Nord risulta maggiormente integrata in un mercato più ampio, anche sovranazionale, in linea con l’ampia disponibilità e varietà impiantistica che caratterizza la macroarea, mentre il minore grado di autosufficienza si riscontra nel Centro Italia, da dove quasi 5 Mt nel 2016, corrispondenti al 14% del totale movimentato, vengono trasferiti verso altre macro-aree.
Ma più in generale questo “turismo dei rifiuti” ha assunto dimensioni tali che, come spiega il rapporto elaborato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile e da Fise Unicircular (l’Unione imprese economia circolare), sono più i rifiuti movimentati (193 milioni di tonnellate) rispetto a quelli prodotti (174,8 milioni di tonnellate nel 2016, tra urbani e speciali). Un problema che potrebbe continuare ad aumentare, tenuto conto che dal 2012 al 2016 la produzione nazionale di rifiuti è cresciuta del 7,8%.
Già oggi la movimentazione di rifiuti si declina in tre componenti fondamentali: i flussi nazionali, l’importazione dall’estero e l’esportazione verso l’estero. Mentre l’import si concentra principalmente sui metalli, soprattutto di tipo ferroso, che vengono utilizzati dall’industria manifatturiera come materiali secondari, i rifiuti che vengono esportati in quantità maggiore sono ceneri (nel 2016 circa 585 migliaia di tonnellatre, kt) e scarti del trattamento di rifiuti in plastica (365 kt) e in carta (200 kt).
Tra i pericolosi vi sono quantità consistenti di miscugli da trattamento chimico-fisici sui rifiuti industriali (180 kt), rifiuti stabilizzati (140 kt) e materiali da costruzione contenenti amianto (115 kt). È importante notare che l’incidenza dei rifiuti pericolosi cambia a seconda del flusso considerato: nel 2016 la quota sulla movimentazione interna è del 5% (in linea con la media complessiva), la percentuale di rifiuti che viene esportata raggiunge invece il 26%. L’esportazione di rifiuti appare legata, almeno in parte, a deficit impiantistici soprattutto per la gestione dei pericolosi, anche se c’è un ridimensionamento del fenomeno rispetto al 2012 (quando i pericolosi arrivavano a coprire il 30% del totale esportato).
La soluzione, che si tratti di rifiuti urbani o speciali, pericolosi o no, può essere solo quella di realizzare gli impianti necessari a gestirli, dove servono. Un esempio su tutti? Roma. Secondo l’analisi di Fise Assoambiente nel 2017 la città ha prodotto circa 2,3 milioni di tonnellate di rifiuti, di cui 1 milione (45%) raccolto in modo differenziato. All’interno di questa frazione l’organico rappresenta la voce principale: circa 400mila tonnellate, dirette quasi tutte fuori dalla Capitale, dove i sei impianti di compostaggio presenti nel 2017 hanno gestito solo 33mila tonnellate. I rifiuti raccolti in modo indifferenziato vengono invece gestiti principalmente negli impianti di Tmb, di cui uno – quello sulla Salaria – è andato a fuoco pochi giorni fa; solo da quell’impianto, secondo dati Ispra, l’anno scorso sono partite 51mila tonnellate di rifiuti dirette in Austria.
Come se ne esce? « Se non si corre ai ripari subito pianificando la costruzione degli impianti necessari e lavorando seriamente sulle raccolte differenziate, la proiezione per i prossimi anni – commenta il presidente di Fise Assoambiente, Chicco Testa – è destinata ad allarmare non poco. Immaginando che Roma sia in grado di riciclare nel 2035 il 65% dei rifiuti, come chiede la Direttiva sui rifiuti del Pacchetto sull’ economia circolare, andranno colmati almeno 30 punti in più di raccolta differenziata, per raggiungere il 75%, visto che non tutto quello che si raccoglie in modo differenziato può essere riciclato. Un obiettivo oggi ancora molto lontano». Per il restante 35% (inclusi gli scarti della raccolta differenziata) e per il trattamento della frazione umida, secondo Fise Assoambiente serviranno poi i seguenti impianti: 4/5 impianti di digestione anaerobica per la frazione umida (capacità media pari a 100.000 ton ciascuno); 1 termovalorizzatore per almeno 600.000 ton (più o meno come Acerra); 1 discarica di servizio a Roma o nel Lazio. Ma nessuno di questi impianti pare ad oggi all’orizzonte.
Nel mentre è stato cancellato il Sistri: per il ministro Costa «attualmente è assicurata la tracciabilità del 65% dei rifiuti speciali». Significa che ad oggi non sappiamo tenere traccia di (almeno) 47.250.000 tonnellate di rifiuti speciali. Passano legislature e governi, ma il principale problema che frena l’economia circolare italiana resta: una «normativa ottusa e miope», come la definì un anno fa Legambiente, e che trova sempre nuove occasioni per ingarbugliarsi. L’ultima sta in un emendamento alla legge di Bilancio (in allegato il testo integrale tratto dal Sole 24 Ore, ndr) e riguarda la normativa End of waste, ovvero quella che è chiamata a stabilire quando un rifiuto cessa di essere qualificato come tale, al termine di un processo di recupero. Oggi queste norme a livello nazionale non esistono se non per pochissime categorie di rifiuti, e introdurle è un passo fondamentale per spianare la strada – non solo a parole – all’economia circolare italiana, tanto che gli imprenditori del riciclo manifestarono a novembre davanti al ministro dell’Ambiente Sergio Costa per dire che «senza End of waste l’economia circolare è una bufala». «Abbiate solo il tempo di aspettare i passaggi tecnici», assicurò allora il ministro, ma il paradosso è che l’attesa norma – così com’è stata pensata e proposta in legge di Bilancio – rischia di non semplificare nulla ma anzi di innescare una nuova spirale negativa. Dopo essere stata tolta all’ultimo tuffo dal decreto Semplificazioni che ha cancellato il Sistri, adesso la rediviva norma End of waste «da una parte fa salve le autorizzazioni già rilasciate in base al vecchio decreto ministeriale del 5 febbraio 1998 sul recupero rifiuti, ma non tiene conto dell’innovazione tecnologica sul riciclo che è maturata negli ultimi venti anni e che non verrebbe agevolata con la norma in via di approvazione», denuncia il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani. Com’è noto, una sentenza del Consiglio di Stato di febbraio scorso impedisce di fatto il rinnovo delle autorizzazioni esistenti degli impianti di riciclo, o il rilascio di nuove, in mancanza di norme nazionali o europee che stabiliscano i criteri tecnici per la trasformazione dei rifiuti in materia o prodotto secondario, ossia i criteri End of waste, necessari per il riciclo. Senza un intervento legislativo che possa sanare quest’enorme lacuna se «considerata l’emergenza impiantistica in cui ci troviamo, aggravata dai roghi sempre più frequenti, si rischia – afferma Andrea Fluttero, presidente Fise Unicircular (Unione imprese dell’economia circolare) – di compromettere irreparabilmente non solo il settore del riciclo, ma l’intero ciclo della gestione dei rifiuti, con gravi danni per tutta la collettività». Il fatto è che l’emendamento così approvato – argomenta Ciafani – non risolverebbe il problema del blocco delle autorizzazioni degli impianti di riciclo, con il rischio di aumentare i flussi a incenerimento e nelle discariche, invece che indirizzarli a recupero di materia». Considerato poi che anche termovalorizzatori e discariche sono sempre meno in Italia (come certifica l’Ispra), e gli impianti rimasti sempre più saturi, il rischio ancora più concreto è quello di un blocco totale della gestione rifiuti, oppure di dare campo libero all’illegalità.
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