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Ambientiamoci!

Nuovi orizzonti per le rinnovabili

Sole e Vento sono diventate negli anni il simbolo dell’energia che mai si esaurisce, che ritorna e che si rigenera con l’alternarsi del giorno e della notte, delle settimane, e con l’andirivieni delle stagioni. Così, quando si pensa alle rinnovabili, sono le tecnologie eoliche e fotovoltaiche a trovarsi più spesso al centro di dibattiti e studi.
Ma se è vero che la partita dell’energia pulita si gioca soprattutto sulla capacità di catturare e sfruttare l’energia ovunque essa si crei e si rinnovi, ecco che negli ultimi anni il terzo dei quattro elementi, il Mare, inizia ad attirare attenzioni di ricercatori e addetti ai lavori.

Elemento vitale per eccellenza, disteso su circa il 70% della superficie del pianeta, il Mare nasconde al suo interno ogni sorta di tesoro energetico. Maree e correnti prima di tutto, ma anche brezza e moto ondoso. Le applicazioni possibili sono molteplici, ma solo adesso sembra che ricercatori, studiosi e addetti ai lavori di tutto il mondo se ne stiano accorgendo.
È di appena qualche giorno l’annuncio dell’azienda britannica Marine Power System, che ha iniziato la fase di test del sistema Wavesub. Un impianto sottomarino, formato da sfere mobili ancorate al fondo del mare attraverso dei cavi, che sarebbero in grado di catturare l’energia del moto ondoso per raccoglierla e trasportarla a terra. Uno solo di questi impianti, della lunghezza di circa 100 metri, potrebbe alimentare all’incirca 5.000 abitazioni.
“Dopo dieci anni di ricerca e sviluppo – racconta Gareth Stockman, CEO dell’azienda – siamo giunti al punto di svolta per questa tecnologia e per la nostra azienda. Siamo convinti che grazie alla sua efficienza, resistenza e trasportabilità, il nostro impianto possa aiutare a far crescere le rinnovabili nel mondo, fino all’obiettivo del 10% di tutto il fabbisogno energetico mondiale”.
E punta sull’energia del moto ondoso anche la danese Wavestar. Il sistema, inventato nei primi anni 2000 da una coppia di fratelli, punta invece sull’energia racchiusa nelle onde in superficie. Un braccio, appoggiato sulla superficie del mare, oscilla seguendo il moto ondoso e azionando così una turbina. Dopo diverse fasi di test, nel 2010 il primo impianto è stato installato ad Hanstholm, lungo la costa settentrionale della Danimarca e collegata alla rete elettrica del paese.
Per anni sono stati raccolti dati e rilevazioni sull’efficienza del sistema, e oggi l’azienda sta lavorando all’espansione del progetto che dovrebbe vedere la luce nel 2018 con i primi impianti in scala completa. Il punto di forza di questa tecnologia galleggiante, consisterebbe – fanno sapere da Wavestare – nella possibilità di integrare le piattaforme con impianti eolici “off-shore”.
Le cosiddette “wind farm” oceaniche, che proprio in questi giorni sembrano diventate protagoniste di un ulteriore possibile campo di sfruttamento dell’immensa energia generata dal mare.
In uno studio pubblicato di recente da Stanford, e ripreso dai giornali di mezzo mondo, Anna Possner and Ken Caldeira hanno dimostrato come le wind farm oceaniche possano rendere fino a 4 volte di più di quelli installati sulla terra ferma. “Il mare – spiegano le ricercatrici presentando lo studio – permette di estrarre energia cinetica dal vento in maniera significativamente più efficace di quanto non succeda a terra. Questo per via delle molte aree di bassa pressione che, specie in inverno, attraversano l’Atlantico”. Le due studiose arrivano persino ad ipotizzare di risolvere definitivamente il problema del fabbisogno energetico planetario con una soluzione tanto affascinante quanto, forse, impossibile: una sterminata wind farm, grande come l’India, costruita sull’Atlantico settentrionale che sarebbe in grado di alimentare il mondo intero.
Il Mare, generoso anche in questo caso, offrirebbe lo spazio e l’energia necessaria. Ma ci vorrebbero decine di miliardi di euro, una volontà politica di ferro e una robusta collaborazione internazionale.
Ingegneria climatica

Hi-tech per salvare il pianeta

Chiudete gli occhi. Immaginate di camminare in un fitto bosco di alberi, altissimi, centenari. Ascoltate il fruscio dell’aria che muove leggermente le fronde più alte. Apriteli adesso: davanti a voi ci sono alberi che non sono alberi, piuttosto gigantesche racchette da tennis alte quanto pale eoliche. All’improvviso un boato: con lo sguardo all’insù, vedete solcare il cielo da navi spaziali che spargono solfati nella stratosfera. Nuvole cariche di pioggia si formano dal nulla. Il rumore del mare, in lontananza, vi attira: ma quello che vi trovate davanti a perdita d’occhio è una distesa verde di alghe che copre tutta la superficie. D’un tratto anche il sole sopra di voi si eclissa: un grosso scudo compare sopra la vostra testa, riflettendo la luce. Cala il buio. Presto, ciò che oggi ci sembra degno del miglior film di fantascienza, potrebbe essere realtà.
Attraverso l’ingegneria climatica, o geoingegneria, l’uomo sta cercando di studiare risposte adeguate per combattere il riscaldamento globale, e in particolare l’aumento della CO2.
Bruciando carbone, petrolio e metano, l’uomo ha aumentato di un terzo, in poco più di cento anni, la quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera: ciò ha causato temperature medie più alte, lo scioglimento dei ghiacciai, brusche escursioni termiche tra estati torride ed inverni sempre più rigidi. Rischi accertati e potenzialmente catastrofici.

È qui che entra in campo l’ingegneria climatica con i suoi avvenieristici strumenti, pensati per assorbire e ridurre l’anidride carbonica nell’aria e negli oceani, o per diminuire la radiazione e il riscaldamento del sole sul nostro pianeta.

Come? Attraverso aerosol stellari a base di solfuri da spruzzare direttamente in cielo per replicare l’effetto climatico delle eruzioni vulcaniche. Foreste di alberi dalla forma di enormi racchette per imprigionare la CO2. Coperte termiche in grado di coprire estensioni di terreno grandi come deserti o ghiacciai, per bloccare il surriscaldamento schermando i raggi solari. Fertilizzanti a base di ferro da spargere nel mare così da aumentare la presenza di alghe che assorbono anidride carbonica e riducono l’acidità degli oceani.

L’ingegneria climatica può essere considerata come la terza e ultima strategia di emergenza per affrontare i cambiamenti climatici a livello globale. Soluzioni hi-tech che però non possono e non devono sostituirsi agli sforzi, ancora considerati prioritari dagli esperti di settore, di mitigazione e riduzione degli inquinanti. La geoingegneria come un’opzione complementare in sintesi, non come una strategia salvifica. Anche perché intervenire in modo così deliberato, diretto e su larga scala sul clima, è una questione che tocca aspetti molto vari tra loro: etici innanzitutto, ma anche politici ed economici. Un’ipotesi che, per adesso, spaventa molti e solleva dubbi sull’effettivo rapporto costi/benefici.
Energia pulita dal vapore

Una nuova fonte rinnovabile

L’ultima frontiera delle rinnovabili si chiama vapore. Secondo una ricerca della Columbia University di New York, pubblicata dalla rivista scientifica “Nature Communications”. L’evaporazione dell’acqua potrebbe essere sfruttata per produrre energia pulita. A differenza dell’eolico e del solare, questa risorsa potrebbe garantire una produzione continua di energia senza l’impiego di batterie costose e inquinanti. Come? Grazie a un motore sperimentale la cui energia proviene dalla contrazione di “muscoli” artificiali, formati da nastri elastici ricoperti da spore di comuni batteri del suolo che si restringono e si dilatano in risposta all’umidità ambientale.
L’energia rinnovabile prodotta dal vapore ha la possibilità di soddisfare, da sola, fino al 70% del fabbisogno statunitense. L’evaporazione ha quindi tutte le potenzialità per diventare la principale fonte energetica del futuro, consentendo di sfruttare solare ed eolico solo quando sono disponibili.
Questo sistema, inoltre, consente di recuperare metà dell’acqua che evapora naturalmente da laghi e bacini, un aspetto particolarmente utile nei Paesi dal clima caldo e secco, in quanto l’acqua recuperata potrebbe essere riutilizzata in caso di siccità. Il test in laboratorio è stato condotto con l’ausilio di una lampada a Led e di una piccola automobile. Il motore a evaporazione attende ora un utilizzo sul campo.
L’area potenziale disponibile per la raccolta di energia aperta è sostanziale, scrivono gli autori riferendosi agli Usa, tale area è estesa almeno 95mila chilometri quadrati (esclusi i Grandi Laghi) degli Stati Uniti e si trova in una gamma geograficamente diversificata di posizioni. Siccome “alcune di queste regioni soffrono di periodi di stress e scarsità idrica”, hanno aggiunto i ricercatori, tali condizioni “potrebbero favorire l’implementazione di questi sistemi di raccolta di energia per via della riduzione delle perdite date dall’evaporazione”. Gli impianti dedicati a sfruttare l’evaporazione potrebbero condizionare le attività di pesca o di nuoto in località anche pittoresche; lo studio non approfondisce questi aspetti come anche l’impatto sulla qualità dell’acqua utilizzata.

 

Classificazione dei rifiuti, stop a legge italiana contro Ue e “fattibilità tecnica ed economica”

Come nella migliore tradizione, anche l’estate di quest’anno è stata foriera di novità sulla gestione rifiuti. Stavolta non abbiamo avuto però gli incredibili provvedimenti agostani degli anni precedenti come, ad esempio, la nuova definizione di produttore, o aberranti come la cancellazione del Sistri a pochi giorni dall’entrata in vigore ma, al contrario, un’importante correzione. Con il dl 91/2017 “Mezzogiorno” convertito dalla legge n. 123 del 3 agosto, si è decretata la prevalenza, in tema di classificazione, dei regolamenti europei sulle leggi nazionali, stabilendo infatti che “la classificazione dei rifiuti è effettuata dal produttore applicando le disposizioni contenute nella decisione 2014/955/Ue e nel regolamento Ue n.1357/2014”.
Conseguenza diretta è l’eliminazione dei criteri introdotti dalla legge italiana in materia, il dl 91/2014 convertito dalla legge116/2014, che aveva introdotto un regime parallelo e in contrasto con i criteri europei. L’entrata in vigore di questa norma era stata “rocambolesca”, per usare un eufemismo. Infatti, a tre mesi dall’entrata in vigore (il 1 giugno 2015) della nuova normativa europea sulla classificazione, il cui iter si era già concluso, il legislatore italiano era entrato a gamba tesa approvando appunto il dl 91/2014. Perché si sentisse il bisogno di emanare norme nazionali su un tema appena regolamentato dall’Europa per tutti i Paesi membri rimane un mistero.
L’aspetto curioso è che nonostante il noto principio giuridico della prevalenza di un regolamento comunitario sulle norme interne, ci sono voluti tre anni e una legge per ribadirlo. A spingere verso questa decisione probabilmente anche un parere dell’Ispra e un’ordinanza della Cassazione.
L’Ispra ci dice che la legge 116/2014 «fa, infatti, ancora riferimento alle frasi di rischio (R) che non sono più previste dalla nuova classificazione (quella europea, ndr) che prevede, invece, le indicazioni di pericolo (H). Tra le frasi di rischio e le indicazioni di pericolo non esiste una corrispondenza univoca». Insomma, mentre il Reg UE 1357/2014 ha introdotto nuovi criteri di classificazione e anche nuove sigle – “H” per le frasi di rischio e “HP” per le caratteristiche di pericolo – la legge italiana usa ancora la vecchia terminologia. «La legge 116/2014 – prosegue il parere Ispra – contiene altresì una terminologia che non è propria della normativa sui rifiuti e che non è mai utilizzata dalle disposizioni comunitarie in materia».
Altro aspetto controverso è il criterio di ricerca delle sostanze pericolose. «Mentre la regolamentazione comunitaria – è ancora l’Ispra che parla – fa espressamente riferimento alle sostanze pericolose pertinenti, la legge 116/2014 fa più genericamente riferimento alle sostanze presenti, il che può portare a includere anche le sostanze non pericolose». Tradotto, la legge 116 impone la ricerca di tutte le possibili sostanze pericolose contenute, a differenza della regolamentazione europea che dice di cercare solo quelle pertinenti.
C’è poi l’altro grosso argomento al centro della discussione, la classificazione dei cosiddetti codici “a specchio”, cioè quei codici che identificano rifiuti che possono essere al contempo pericolosi o non pericolosi a seconda della concentrazione delle sostanze ivi contenute. Ed è proprio su questo aspetto che è intervenuta la Cassazione la quale – dovendosi pronunciare su un procedimento nato dalla presunzione di pericolosità di alcuni rifiuti con codice a specchio – con l’ordinanza n. 37460 del 27 luglio ha deciso di sospendere il processo e rinviare ai giudici comunitari la questione dei criteri per la classificazione per questi codici.
Alla base del rinvio, un’articolata requisitoria del sostituto procuratore generale Pasquale Fimiani, che, nella sostanza, ha contestato l’obbligo di prevedere per le voci a specchio un’analisi “quantitativamente esaustiva” andando a ricercare tutte le componenti del rifiuto. Tale criterio si scontra con quelli della “fattibilità tecnica ed economica”. Al contrario, il produttore deve poter dimostrare la composizione anche diversamente, attraverso però “criteri oggettivi, verificabili e tecnicamente attendibili” e in loro mancanza – perché ad esempio è ignota l’origine del rifiuto – l’unica via è l’analisi quantitativamente esaustiva. La conclusione è la «non applicazione delle presunzioni della legge 11 agosto 2014 n.116 laddove comportino soluzioni diverse e più restrittive».

Torna a crescere la produzione di rifiuti, in larga parte va nelle raccolte differenziate

Anche in Toscana torna a crescere la produzione di rifiuti urbani, con un andamento sostanzialmente sovrapponibile a quello nazionale ed andando ad attestarsi sui livelli di circa cinque anni fa. La produzione di rifiuti urbani in Toscana nel 2016 si attesta a 2milioni e 300mila tonnellate, con un aumento rispetto al 2015 di poco meno il 2%, percentuale di incremento nazionale. E’ quanto rivela il 19° rapporto sui rifiuti urbani pubblicato lo scorso martedì 31 ottobre, che ci mostra come di questo incremento ne abbia risentito positivamente soprattutto la raccolta differenziata e l’avvio a riciclo, a discapito invece del ricorso alla discarica. Leggendo i numeri del rapporto, infatti, si scopre che in Toscana la produzione pro capite di rifiuto urbano del 2016 sia sostanzialmente in linea con quella di cinque anni fa (2012), cioè intorno a 615 kg per abitante. Nello stesso periodo di tempo, però, la produzione pro capite di raccolta differenziata è passata da 245 a 315 kg per abitante anno. Andamento positivo che si conferma nei dati delle tre province in cui Sei Toscana gestisce il ciclo dei rifiuti urbani. In Provincia di Arezzo, ad esempio la produzione pro capite di rifiuti differenziati è passata dai 220kg del 2015 a 224 nel 2016 e con un incremento di ben 50kg ad abitante rispetto al 2012. In provincia di Siena si è invece passati da 251 a 270 kg per abitante di raccolta differenziata sempre tra il 2015 ed il 2016, mentre lo stesso dato si attestava a 231 kg nel 2012. In fine nella provincia di Grosseto la produzione pro capite di raccolta differenziata è passata dai 193 kg del 2015 a 213 kg del 2016. Un miglioramento che, sempre secondo Ispra, ha interessato anche la qualità dei materiali e di conseguenza l’avvio a riciclo, che ha fatto segnare un +1% o un +1,7% rispetto l’anno precedente in base ai due diversi metodi di calcolo che l’istituto ha utilizzato.

Valter Lupetti

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Valter Lupetti
Tags ambiente

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