Leggendo Andrea Casalegno, su “Domenica” de “Il Sole 24 Ore” del 21 maggio 2017, mi sono accorto dello scorrer del tempo, a quaranta anni dalla naia, riaffiorandomi incontri nell’anno trascorso nel 225 Battaglione Fanteria di Arezzo. Casalegno ricordava l’assassinio del padre, il giornalista Carlo, da un commando Brigatista, nel novembre del 1977. Durante un permesso, al commando partecipò un commilitone con cui condividevo la consuetudine di scambiare il giornale. Io leggevo L’Unità e lui La Stampa. Ambedue militari “ammessi al ritardo” per ragioni di studio. Assegnato all’infermeria, potevo procurare i giornali (uscendo con l’ambulanza), che fornivo anche al brigatista. Lui, per me, era un soldato di origini sarde, laureato in ingegneria a Torino, addetto alla cucina. Dove lavorava con tal diligenza da essere additato agli ufficiali, dal comandante Brialdi, come esempio di buon soldato. Dopo l’arresto del Brigatista, quel discorso costò a Brialdi la rimozione dal comando. Personaggio grigio. del quale la truppa salvava solo le grazie d’una figlia, nel grigiore della caserma, unica presenza femminile intrigante.
Com’ero finito nel CAR (addestramento reclute) di truppe che, in caso di guerra, sarebbero finite in prima linea? Ero un “raccomandato di Fanfani”, come la maggior parte della prima compagnia, in cui prevalevano aretini e cortonesi. Il buon Fanfani non era il noto politico ma un dirigente ministeriale che aveva casa a Cortona. Non era necessario conoscerlo, bastavano amicizie comuni. Senza voler nulla in cambio, destinava i militari a loro piacimento.
Sul Battaglione aretino, circolava la diceria che fosse “punitivo”, a causa dell’indegna fuga lungo il torrente Vingone dei soldati in presidio alla caserma Cadorna, durante la seconda guerra mondiale. Avevano abbandonato pure la bandiera del corpo. Il senso di “Battaglione punitivo” fu ben presto chiaro. A eccezione dei “raccomandati”, d’ogni estrazione sociale e ideale, molti commilitoni erano segnati da dure esperienze di vita: camorristi, pregiudicati, …, o marchiati politicamente da esperienze politiche extraparlamentari, sospetti brigatisti e di Prima Linea, o di altre sigle nell’arcipelago comunista. Compresi i militanti del PCI e della FGCI.
Militanza che mi fu rinfacciata in via diretta e indiretta, anche se ritenevo la parentesi militare libera da impegni politici, non vedendo l’ora di togliermi quel dente!… Divertente fu la convocazione nell’ufficio del comandante Pecchi, che m’avviò una ramanzina: “Qui non voglio attivisti politici comunisti…” eccetera eccetera. Finito il pistolotto, mi chiese di fornirgli il siero antiofidico, salutandomi affabilmente. L’indomani andava a funghi!… In anticamera, un simpatizzante di Prima Linea m’aveva inquietato, piagnucolando timori di punizioni o trasferimenti in remote caserme. Non seppi l’esito di quella storia. Riemerse, ancora, il mio stigma politico per bocca del tenente di compagnia, al quale, come ad altri ufficiali e graduati, prestavo assistenza, fidandosi della mia esperienza paramedica. Il tenente si scusò: non poteva promuovermi caporale a causa delle simpatie politiche. Ma la carriera militare non era nelle mie mire… mentre, felice, in compenso ricevetti un congedo lungo e un premio in denaro. Ebbi pure un mese di congedo straordinario per rientrare al lavoro. Era necessario risanare le sorgenti inquinate dell’acquedotto comunale, dove intervenni. In caserma, immagino ebbi il sostegno del cortonese maresciallo Galletti, con cui non ho mai verificato quel favore, né, meritandoselo, l’ho ringraziato.
Agli inizi della naia, in camerata e nell’addestramento alle marce e alle armi, entrai in contatto con una corte dei miracoli di burbe quasi tutte più giovani, salvo pochi commilitoni miei coetanei (ritardatari per motivi di studio) catapultati in quel girone dantesco di gavettoni, dentifrici spremuti sulle lenzuola, scherzi vari, nonnismo,… compreso un rompicoglioni, sospetto camorrista e pappone, che, farneticando ad alta voce, la notte simulava incubi guastandoci il sonno. Voleva l’esonero militare. Riuscì a spacciare sigarette e droga, e, durante le libere uscite, forniva alla truppa veneri a pagamento… Al mio compagno di branda, un timido ragazzo torinese, spiegai cos’era la bagnacauda…, a scusante, aveva la famiglia d’origini siciliane.
Nella branda di fronte, Pau simpatico borgataro parlava un romanesco stretto, come i ragazzi di vita di Pasolini, un trottolino sempre pronto a fare e ricevere scherzi… Ogni tanto, gli anzianotti par mio li portavo a cena dai miei genitori, a compensare un rancio disgustoso, compreso il vino fatto di cartine che dava tremendi mal di testa. Nel grigiore delle giornate, lo svago mentale era giocare a flipper nel bar. In libera uscita, oltre a pasti ristoratori, era necessario procurarsi tascate di monetine per curare l’alienazione… Pur sobbarcando caterve di turni di vigilanza notturna – gli ufficiali medici cortonesi (Pulcinella e Tenani) tornavano a nanna dalla moglie -, la vita in infermeria era decente. Osservatorio privilegiato di furbizie: nell’inventare scuse a non marciare, a non fare servizi, a sgamare la naia,… Alla fine, sostenevo i bricconi suggerendo scuse plausibili per raggiungere i loro obiettivi. Come accadde con uno scafista napoletano, accompagnato in infermeria afasico… all’improvviso s’era ammutolito!… Fu lasciato in ambulatorio. Finchè, noi due soli, gli tornò la parola. Doveva tornare a casa. L’aspettava uno “scafo blu” per il contrabbando di sigarette, a dir suo, unica fonte di reddito familiare… Da vicino, siamo tutti uguali, delinquenti e non. La mia idea del mondo è che tutti siamo membri di una grande famiglia.
Oltre allo sconcerto, seguito all’uccisione di Casalegno, l’altro momento drammatico fu la consegna dell’intera caserma dopo il rapimento di Moro. Ricordo la mestizia dell’ufficiale medico, un democristiano con amicizie romane politiche altolocate, subito, fece intendere che Moro era difficile salvasse la vita…
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