“Voglio ringraziare Dio per tutto quello che ha fatto per me, perché senza di lui niente di tutto questo sarebbe stato possibile”. Madre Natura gli ha dato l’altezza, una progressione micidiale e leve lunghissime per permettergli di decelerare in pista e infine chiudere con il ginocchio ben oltre la linea del traguardo. Usain Bolt si conferma così il velocista migliore al mondo. Il connazionale Yohan Blake ha dovuto arrendersi alla felicità un po’ tarocca dei braccialettini degli ovetti di Pasqua che sono sempre d’argento, quando va bene. A volte sono pure d’acciaio, ma quelli toccano a chi magari arriva quarto e termina i 200 metri con il tempo di 19” e 80.
Bolt ha messo in piedi, anzi, sulle rotaie di un treno alta velocità, la propria “recita”, che altro non è che la rappresentazione di se stesso. Spinta dai blocchi al massimo, il deceleramento, l’illusione a Blake di trovarsi un passo oltre, la progressione, la camminata, lo sguardo feroce dentro il video, l’indice alla bocca. Se qualcuno aveva dei dubbi, lui è il massimo e lo deve a Dio, alla terra della Giamaica che nello sprint ha preso a schiaffi la potenza Usa e la storia dei suoi velocisti.
Bolt è così: leggero, quasi superficiale, troppo scherzoso, fotografa i fotografi, esulta come un calciatore di Lega Pro, fa quel gesto con la mano davanti agli occhi, si fotografa con le svedesi in camera, vuole giocare a calcio, si sente uno stregone che tutto può e tutto trasforma. Così lontano dagli atleti del passato anche recente, l’atteggiamento pesante di chi può tutto e sembra farlo per scherzo come un Peter Pan che insegue Campanellino, così distante dalla rigidità e dal volto teso di un Michael Johnsonn che ad Atlanta ’96 fu il protagonista indiscusso, lui che correva con i muscoli stretti ad una morsa. La pesantezza della presenza schiacciante di Bolt è però leggera e non solo sul traguardo. Ben voluto dai compagni di squadra olimpica, dagli appassionati di sport, dai mass media e non solo perchè li sfama: in dote ha quell’immunità preziosa che quando dovrà chinarsi alla sua fisiologica parabola discendente gli consentirà di non farsi prendere a sassate, dall’alto del suo monumento. Una vera stregoneria che finora è magia per pochi. Come per Carl Lewis sul quale si stanno sprecando da anni i paragoni.
“C’è solo un modo per allenarsi: quello giusto. C’è solo un modo di gareggiare: quello giusto” diceva lo statunitense negli anni ’90, quando l’atletica non era quella che è adesso, quella trasformata da Bolt. La rigidità di Lewis, così perfetto, così re sul trono; la durezza granitica di un piedistallo consegnato a lui eterno, quel suo essere snob nell’incarnare una parte del sogno americano nel limbo e nel post guerra fredda, l’hanno consegnato alla storia come l’atleta irraggiungibile anche una volta frantumati i suoi record. Perfetto anche nel salto, visto che gareggiava anche in quello in lungo, al contrario del giamaicano che quando salta lo fa come un ragazzino o come noi (magari ha una maggiore elevazione, ecco).
“La vita non è solo un filo del traguardo” ci ha detto ancora Lewis, mentre Bolt ce lo ha fatto capire quando corre in pista, in tv lo guardano due miliardi di persone e la Giamaica si ferma tutta, compreso il trend della criminalità.
E la differenza sta tutta qui: Lewis è stato re del popolo, Bolt è re nel popolo.