LUI L’AVEVA AFFASCINATA PARLANDOLE DELLA SUA CITTA’ NATALE: CORTONA. LEI, POCO PIU’ CHE UNA BAMBINA, NON AVEVA ALTRO MODO PER DIMOSTRARGLI INTERESSE CHE REGALARGLI L’UNICA COSA CHE AVEVA: UNA MEDAGLIETTA DI LOURDES…
“Non avevo dapprima sentito l’immenso pericolo di un innamoramento serio: avendo stabilito una volta per sempre che un vagabondo avventuriero e miserabile come me non si innamora, mi credevo al riparo” dice nella sua autobiografia (1) il protagonista maschile dell’avvenimento immortalato dalla foto.
E invece era trascorso poco più di un anno e mezzo dal momento in cui aveva conosciuto la fanciulla che vediamo accanto a lui in abito da sposa ed eccolo lì, il “vagabondo avventuriero” così sicuro di essere refrattario all’amore! Eccolo appena uscito dal Municipio del 14° Arrondissement di Parigi, innamorato e al massimo della felicità, dare il braccio a quella che da quel giorno sarebbe stata per sempre, la “cara compagna della sua vita”.
Era il 28 Agosto dell’anno 1913, un giorno, dicono, di luna nuova.
Lui, Gino, lo sposo, aveva già superato i 30 anni. In fondo, era già un uomo. Ma era emozionato come un ragazzino e il suo “sì” era stato talmente flebile che si era sentito appena.
Lei, Jeanne, invece, che aveva da poco compiuto 16 anni, era piena di entusiasmo e, sicurissima della sua scelta, aveva detto un “si” talmente squillante che tutti i presenti nella sala comunale avevano riso.
“Avevo quattordici anni e mezzo; veniva alla Closerie des Lilas dove mio padre ogni martedì riceveva gli amici artisti e letterati…Subito .. si interessò a me, prendendomi molto sul serio” racconterà lei rievocando con soave dolcezza la sera del loro primo incontro.
“Questo caffè letterario ha una grande importanza per me, perché v’incontrai Jeanne Paul Fort che divenne poi mia moglie; fatto questo che decise di tutta la mia vita…” ammetterà lui assolutamente disarmato da quell’inaspettato incontro
Un incontro letteralmente “folgorante”, il più autentico dei “coups de foudre”!
E Cortona quella sera, come il libro di Paolo e Francesca, fece un po’ da “galeotta”..
Le storie d’amore, di solito, non mi intrigano affatto e, come fanno i gatti con l’acqua, evito con la massima cura di venirne a contatto.
Questa storia, però, non è uscita dalla penna di un romanziere in cerca di facile successo.
E’ una storia di vita veramente vissuta della cui autenticità non si può dubitare: sono e sono stati loro, i protagonisti stessi, a darcene garanzia narrandocela nelle loro memorie o confermando i loro ricordi agli studiosi che hanno scritto su di loro.
Racconti che sono riusciti a trasmettere a chiunque li abbia letti o ascoltati, biografi e critici d’arte compresi, una struggente tenerezza e un contagioso entusiasmo: vere iniezioni di fiducia nel futuro, potenti vaccini contro l’amarezza, gustose bibite energetiche per animi depressi che, in tempi mesti come quelli che stiamo vivendo, credo proprio non possano far altro che bene.
Anche agli allergici ai sentimentalismi come me.
E’ la storia di un sodalizio affettivo che, con straordinario coraggio, eccezionale tenacia tutto ha affrontato e tutto ha vinto: lunghi anni di miseria, gravi e ripetuti problemi di salute, la morte di due figli, drammi che si sono aggiunti alle altre mille difficoltà e agli innumerevoli inciampi che disturbano la convivenza di qualsiasi altra coppia, anche di quella più fortunata.
E’ la storia di un sentimento incredibilmente solido in cui la comprensione e la tolleranza, la fiducia nelle capacità dell’altro, la sicurezza di poter contare nel sostegno reciproco, la gratitudine per i sacrifici affrontati con serenità sono stati un collante talmente potente che non c’è stato studioso che occupandosi della vita artistica di lui non abbia ritenuto giusto riservare un grande spazio al racconto di questo legame che è da tutti concordemente ritenuto fondamentale anche per le sorti dell’arte del 900.
Una storia d’amore a cui, per una volta tanto, io ho creduto. Spero che accada anche a voi.
E’, insomma, la storia di Gino, un giovane della provincia italiana cresciuto in una famiglia molto modesta che si era trasferito a Parigi per andare incontro al proprio destino d’artista, e di Jeanne, che invece a Parigi, in una famiglia d’artista era nata e cresciuta.
Una storia che non può esser riferita senza perdere in grazia e genuinità se non lasciando il più possibile e, per quanto possibile, parlare loro: Jeanne Fort e Gino Severini.
Jeanne:
“Il mio incontro con Cortona non fu, come si potrebbe pensare, la mia prima visita in questa città che avvenne nel 1935, ma molto tempo prima, cioè il giorno in cui conobbi Gino, a Parigi, alla Closerie des Lillas, nel dicembre 1911, e io avevo allora quattordici anni e mezzo…Gino era talmente impulsivo e estroverso che in meno di un’ora sapevo tutto di lui e prima di parlarmi della sua arte, dei suoi genitori, mi parlò di Cortona la sua città Natale. Lungamente, con emozione, direi con tenerezza…aveva in me un’ascoltatrice appassionata, e per me, Cortona divenne un’amica, quasi fossi anch’io un’esule cortonese..”
Si erano incontrati per la prima volta a “La Closerie des Lilas”, “Il giardino dei Lillà”, un caffè in Montparnasse, il famoso quartiere parigino. Un caffè letterario che era il punto di incontro tra alcuni dei letterati e pittori che all’epoca costituivano le avanguardie della cultura francese ed europea. Era il locale dove ogni martedì insieme ai poeti “Simbolisti” si incontravano artisti di ogni genere. Un locale il cui nome evoca gli amori dell’adolescenza, quelli che sbocciano in primavera.
E invece era dicembre, il dicembre del 1911.
Lei, Jeanne, nata e cresciuta a Parigi, fin dal suo primo vagito aveva respirato arte e poesia. E non è solo un modo di dire.
Suo padre infatti, Paul Fort, il poeta simbolista di cui tutti abbiamo scolastica memoria, fondatore e direttore della rivista letteraria “Vers et Prose”, era stato insignito di un titolo molto prestigioso in Francia: quello di “Principe dei Poeti”. Un titolo onorifico che di cui un poeta, una volta ottenuto, poteva fregiarsi per tutta la vita e che prima di lui avevano conseguito Mallarmé e Verlaine. Un’onorificenza sintomo di universale stima e successo artistico a cui, purtroppo, non corrispondeva affatto un pari successo economico. Almeno non per la famiglia Fort, anzi…
Lui, Gino, invece, dopo esser nato e vissuto fino ai sedici anni in una modesta famiglia di un paese della provincia Toscana, Cortona, e dopo un soggiorno di alcuni anni a Roma, all’età di ventitré anni era infine approdato a Parigi, la città che, soprattutto in quegli anni, era il “crogiolo” in cui si forgiavano tutte le avanguardie artistiche.
Era arrivato in quella città a lui del tutto sconosciuta “ una domenica mattina grigia e piovosa, nel 1906” e vi era giunto, “misero e disarmato, parlando malissimo il francese, senza conoscer nessuno, senza denaro” e “quel che più conta – come ammette lui stesso nella sua autobiografia – “non sapevo far niente, non ero niente…Non avevo in mano nessun mezzo di sussistenza. Malgrado ciò arrivai alla Gare de Lyon gaio e contento”.
Viveva in quella metropoli nella più perfetta povertà, da vero “bohèmien”, e molto spesso, per sopravvivere e curarsi dalle ripetute ricadute nella preoccupante malattia polmonare di cui soffriva da anni, aveva dovuto far ricorso alla generosità di qualcuno che stimava la sua passione per la pittura degna di un aiuto o alla solidarietà di altri artisti che, bohemiens come lui, come lui conducevano una vita misera dibattendosi ogni giorno in enormi difficoltà per nutrirsi e per riuscire ad onorare le angoscianti “termes”, le rate trimestrali degli affitti da pagare.
Era nei quartieri di Montmartre e Montparnasse che a Parigi, si concentrava la vita artistica della capitale francese, e, particolarmente in quell’epoca, in quelle zone della città poteva capitare di far conoscenza, se non addirittura di vivere negli stessi caseggiati, talvolta porta a porta, con alcuni di coloro che sarebbero poi passati alla storia come le punte di diamante dell’arte del ‘900.
Gino aveva scelto, sfratti permettendo, di stabilirsi a Montmartre, dove aveva stretto amicizia con altri artisti che come lui erano allora ancora in attesa di affermazione: Picasso, Braque, Max Jacob, Modigliani, Utrillo, e il poeta e critico d’arte Guillaume Apollinaire!
Con loro, quasi ogni sera, Gino era solito incontrarsi al “Lapin Agile” un cabaret dove, insieme, amavano teorizzare sulla loro arte.
Una di queste sere però, chissà se il caso o se il destino, decise di condurlo in Montparnasse…
Gino:
“La prima volta che andai alla Closerie non era di martedì…Marinetti trovandosi di passaggio a Parigi, volle per forza condurmi laggiù; io conoscevo di nome il caffè (e molti dei suoi frequentatori) ma non volevo andarci, perché il mio ambiente di Montmartre mi bastava…Marinetti mi condusse quindi alla Closerie in una sera che c’era poca gente… e, laggiù in fondo alla seconda sala, c’era Paul Fort con la sua famiglia e qualche amico”
Ironia della sorte! Gino non voleva andare alla Closerie perché quelli che lui definisce “i frequentatori” di quel locale, poeti, scrittori, pittori, scultori che riconoscevano in Paul Fort il loro “capo spirituale”, apparivano a lui e al suo amico Picasso i rappresentanti di un tipo di “bohème” sorpassata, quella degli artisti con i capelli lunghi ed i mantelli neri, mentre “…eravamo, è vero, anche noi dei Bohèmes, ma del nostro tempo..”ammette Gino parlando di sé stesso e di coloro che come lui aderivano alle nuove tendenze artistiche “..in tuta bleu o marrone, casquette (cappellino con visiera) ecc.., o magari “complet-veston” (giacca e cravatta) e chapeau-melon (cappello simile a bombetta). Vi fu un momento in cui non possedei che una tuta , con le scarpe di corda dette “espadrilles, e uno smoking, con i relativi scarpini di “soireé”.
Poveri insomma, ma paladini dell’estetica sempre e comunque, anche nell’abbigliamento.
Però, continua il pittore descrivendo quello che in letteratura è stato definito “il poeta della giovinezza, della primavera e degli amori”, personaggio che sarebbe diventato di lì a poco suo suocero: “malgrado i suoi capelli lunghi e il suo cappello Rembrandt mi fu subito simpatico” e, guarda caso, altrettanto simpatica gli fu “tutta la comitiva”.
Un cambio di opinione repentino, una inversione ad “u” veramente stupefacente! Si direbbe che Cupido, quella sera alla Closerie per una missione veramente speciale, avesse già lanciato in quella sala uno dei strali e che questo, all’istante, avesse colpito al cuore proprio l’artista cortonese:
“…La figlia del poeta aveva allora 14 anni (eravamo nel 1911), ed era una bellissima fanciulla dalle due trecce nere a destra e a sinistra di un volto perfettamente ovale, bruno, espressivo e vivacissimo, come quello del padre. Essa rivelava già un forte temperamento, un carattere deciso, serio, volontario, una tendenza all’azione…, certo che in quel momento non pensai affatto che sarebbe divenuta la cara compagna della mia vita…”
dirà Gino nella sua autobiografia, ricordando quella che sarebbe stata la sua ultima sera da “single”:
“...Jeanne, la posso ora chiamar così, era una giovinetta scontrosa, sgarbata, con la quale era impossibile ragionare cinque minuti senza litigare. Litigava con tutti alla Closerie eppure tutti l’adoravano; la consideravano la principessa della Closerie, non solo perché suo padre succedendo a Verlaine, Mallarmé e Leon Dierks, era stato eletto dai poeti “Prince des Poèts”, ma perché la sua grazia, per quanto ruvida e spinosa, era quella che si distingueva da tutte…” “Quelle soirée chanceuse!” avrebbero detto i frequentatori della Closerie, “Che serata fortunata!” diremmo noi con parole dal suono meno armonioso. Era evidente che quella sera il Dio dell’amore era in stato di grazia: non sbagliava un colpo! Un altro dei suoi strali fece infatti, immediatamente, pieno centro e, per una volta tanto, lo fece proprio nel cuore giusto:
Jeanne:
“Il mio incontro con Cortona non fu, come si potrebbe pensare, la mia prima visita in questa città che avvenne nel 1935, ma molto tempo prima, cioè il giorno in cui conobbi Gino, a Parigi, alla Closerie des Lillas, nel dicembre 1911, e io avevo allora quattordici anni e mezzo…Gino era talmente impulsivo e estroverso che in meno di un’ora sapevo tutto di lui e prima di parlarmi della sua arte, dei suoi genitori, mi parlò di Cortona la sua città Natale. Lungamente, con emozione, direi con tenerezza…aveva in me un’ascoltatrice appassionata, e per me, Cortona divenne un’amica, quasi fossi anch’io un’esule cortonese..”
e altrove:
…“Avevo quattordici anni e mezzo; veniva alla Closérie des Lilas dove mio padre ogni martedì riceveva gli amici artisti e letterati, venivano anche i cubisti…Un giorno Marinetti portò mio marito alla Closérie des Lilas a conoscere mio padre col quale era in corrispondenza da molti anni…Subito Severini si interessò a me, prendendomi molto sul serio: cominciò a parlarmi del suo paese, Cortona, al quale voleva bene come a una persona…Siamo diventati amici e, al suo ritorno, su per giù a febbraio, ci fu la grande mostra da Bernheim Jeune...”
Era passato poco più di un mese da quella prima conoscenza avvenuta alla Closerie e, nel febbraio del 1912 , alla Galerie Bernheim Jeune, era stata inaugurata una mostra di opere di un gruppo di artisti italiani che si proponevano di provocare lo scossone decisivo, il terremoto che ritenevano indispensabile perché ogni branca dell’arte italiana riuscisse finalmente a distaccarsi dalla cultura ancora dominante in quel tempo. Una cultura che loro giudicavano antiquata, noiosa, borghese e, in quanto tale, ormai insulsa e sterile. Per raggiunger questo scopo gli aderenti a questa nuova filosofia inneggiavano, e spesso con modi irruenti, dirompenti e talvolta violenti, alla modernità, alla tecnologia, al movimento, alla velocità, alla sfida del pericolo: le cose che che cercavano di catturare e riprodurre, esaltandole, nelle loro opere.
Si erano definiti “Futuristi” e si chiamavano: Marinetti, Boccioni, Russolo, Carrà e …Severini.
Insieme, e per la prima volta, esponevano le loro opere a Parigi.
E Jeanne, disorientata di fronte al loro modo di dipingere ma ormai inesorabilmente conquistata dall’artista cortonese, ammette con un commovente candore:
“Quel giorno non sapevo cosa fare con tutti quei quadri di cui non capivo niente, ero abituata al Salon d’Automne , a vedere i cubisti e le loro forme strambe ma non volevo essere da meno degli altri che si interessavano. Quel giorno evidentemente con un partito preso terribile, trovai i suoi quadri (quelli di Gino) molto più belli degli altri: mi trovai d’accordo con Apollinaire. Non sapevo cosa fare per esser gentile, avevo in tasca una piccola medaglietta di Lourdes e gliela regalai (l’ha conservata per almeno quaranta anni e quando l’ha persa è stato un gran dolore). Poteva essere divertente e commovente questa bambina che dà una medaglia, era quello che avevo di più bello, ero molto povera. E dopo ha cominciato a venire: sempre di più mi parlava. Tutto quello che so l’ho imparato da Severini”
Ma non ci narra Jeanne, per oblio o per timidezza non sappiamo, che non era quella la prima occasione in cui, con la malizia tipica di una ragazzina innamorata, aveva lasciato trasparire la sua predilezione per il pittore: era già accaduto in Gennaio, esattamente nella sera dell’Epifania, sempre lì alla Closerie.
E, se omette di confessarlo lei, a riferircelo provvede lui che, ancora lusingato da quelle “attenzioni”, racconta orgoglioso:
“Non bisogna credere del resto, che le conversazioni di quelle riunioni (alla Closerie)fossero tutte relative alle arti o alla poesia, nemmeno per sogno; in primo luogo si annodavano e scioglievano amori, e amoretti di ogni genere…Vi erano inoltre le Feste dell’Epifania , detta “Fete de Roi”” si facevano, come usa a Parigi, diverse belle e buone torte, piatte e larghe, imburrate e a sfoglie, all’interno delle quali, come ognuno sa, è nascosto un pupazzetto di porcellana, detto “baigneur”. Si taglia la torta a spicchi e si distribuisce; colui che nel suo spicchio trova il “baigneur” è Re, e sceglie una regina, o viceversa.
Assistei ad una di queste serate …mi pare nel 1912; e mi diverte molto ricordarmi come l’astutissima figlia del poeta distribuisse così bene gli spicchi di torta che, non si sa come e perché fui prima Re, e poi Re dei Re, e naturalmente lei fu Regina . Ci mettemmo in testa delle corone di cartone e fummo festeggiati da tutti come sovrani.”ed in seguito:“Il martedì grasso del 1912, la figlia del poeta Paul Fort si mascherò da “pellerossa” e col suo viso bruno, e le sue trecce nere, è impossibile dire quanto quel costume le stesse bene e quanto fosse bella”
A questo punto era ormai evidente: per il “vagabondo avventuriero” non c’era più alcuna possibilità di scampo tant’è che anche agli amici non restava altro che prender atto che la breccia operata dalla “principessa dei poeti” nel cuore dell’artista cortonese era ormai irreparabile:
Baccio Maria Bacci:
“per stare con la fidanzata e non tralasciare il lavoro, quando il martedì sera la famiglia di Paul Fort viene a presiedere il raduno dei poeti, Severini porta con sé un quadro da finire. L’altra sera mi pare fosse un tango… aveva appoggiato il quadro sul tavolino e sedeva, stretto stretto, accanto alla sua ragazza che sciolti i lunghi capelli divisi sulla fronte, se li pettinava lasciando blandamente la bisogna a Severini, che la proseguiva con amore..”
E così, quasi fosse un gioco, quando era passato solo poco più di un anno dal momento della loro conoscenza, proprio in una di queste sere in cui alla Closerie si festeggiava il Martedì Grasso, i due decisero della loro vita:
Gino:
“..Inutile dire che ci siamo bisticciati innumerevoli volte, visto che anche io non ho un carattere mansueto; ma i nostri litigi, ognuno lo capisce, entrano nella strategia di tutti gli amori. Così un bel giorno decidemmo fra di noi di sposarci. Fu verso quell’epoca il Martedì grasso del 1913, mi pare. Jeanne , questa volta si era mascherata da donna cinese ed anche questo vestito le stava molto bene. Si ballava tranquillamente e divinamente soli in mezzo alla folla, quando Paul Fort, anche egli accoppiato con una sua amica, mi passò vicino dicendo: “Sembra caro Severini che vi sposiate con mia figlia”. Rimasi proprio di stucco; e lui ridendo del mio imbarazzo, si allontanò dicendo:”Non bisogna esser troppo severi con Severini..”.
Quel matrimonio catturò l’attenzione di molti giornali: tutti quelli francesi, molti di quelli inglesi e anche qualcuno tra quelli italiani, si occuparono di quella cerimonia titolando le loro cronache “Il matrimonio principesco” o “Il matrimonio di un’altezza” non perché la posizione sociale degli sposi e delle loro famiglie giustificasse queste definizioni e neanche perché lo motivasse la loro situazione economica che, lo sappiamo già, era delle più precarie, ma per alludere al quel titolo onorifico che era stato conferito al padre di Jeanne “il principe dei poeti” e all’autorevolezza in campo artistico dei testimoni di entrambi gli sposi. Una notizia che anche un cinegiornale, il Pathé-Journal aveva ritenuto degna di divulgazione.
Per lei: Alfred Vallette, poeta teorico del Simbolismo e fondatore della rivista “Mercure de France” e Stuart Merrill poeta statunitense che aveva scelto la Francia come patria di elezione. Ambedue grandi amici del padre .
Per lui: Guillaume Apollinaire, poeta, scrittore, critico d’arte e drammaturgo, e Filippo Tommaso Marinetti, il ben noto primo firmatario del “Manifesto dei futuristi” che, che, in perfetta sintonia con i principi del movimento artistico da lui stesso fondato, volle stupire ospiti e stampa arrivando alla cerimonia con un’elegantissima auto bianca.
Fu proprio per la presenza di questi due ultimi personaggi, presenza che nessuno ritenne casuale,che altri notiziari titolarono invece “Un matrimonio futurista” e ad altri ancora “Un matrimonio cubista” per suggerire che con quella cerimonia nuziale si era simbolicamente voluto suggellare, insieme all’unione dei cuori dei due giovani, l’unione dei due “rivoluzionari” movimenti artistici, l’uno orgogliosamente, forse troppo orgogliosamente italiano, l’altro in piena auge in Francia. Fusione artistica, peraltro mai raggiunta, ma per la quale Severini, unico “futurista” residente stabilmente a Parigi, aveva tentato di fungere da trait d’union.
Nelle coppie normali, da che mondo è mondo, la vita idilliaca dura, di solito, almeno fino al ritorno dal viaggio di nozze.
Ma non fu questo, purtroppo ciò che accadde ai neoconiugi Severini-Fort: i gravi problemi che per lunghi anni avrebbero a lungo continuato ad angustiare la loro vita matrimoniale non attesero neanche la fine della loro luna di miele per pararsi immediatamente loro di fronte come faticosissime montagne da scalare.
Il loro soggiorno in Italia, intrapreso subito dopo il matrimonio soprattutto per far conoscere Jeanne ai genitori di Gino, si era infatti dovuto forzatamente protrarre per più di un anno nel nostro Paese, e per la maggior parte del tempo ad Anzio, in una casa che gli sposi erano stati costretti a prendere in affitto nella speranza che l’aria di mare riuscisse a risolvere i problemi polmonari che ciclicamente affliggevano la salute del pittore, problemi che proprio in quel periodo si erano fatti veramente preoccupanti e che la penosa situazione finanziaria degli sposini rendeva oltremodo complicato superare.
E in quella casa la cui pigione veniva pagata grazie a collette organizzate da amici e colleghi di Gino, “una vecchia casa tutta sgangherata sull’estrema punta del molo” che, con gli occhi dell’amore, era sembrata loro “un’abitazione magnifica” Jeanne aveva dovuto, per la prima volta nella sua vita, dar prova delle sue inesistenti capacità di massaia.
Gino:
“Cominciò così la nostra vita di famiglia. Jeanne era piena di coraggio ma non sapeva neppure come cuocere un uovo; bisogna considerare che era nata e cresciuta in una casa che non era come le altre; era innanzitutto la redazione, il ridotto di “Vers et Prose”…Di questo piccolissimo appartamento Paul Fort aveva fatto il suo centro di azione. Di là partivano migliaia di bollettini di sottoscrizione e di abbonamento, là affluivano lettere e vaglia. La moglie, la madre e la figlia, e quando vi era, il nepote del poeta, non avevano altra missione al mondo che lavorare per “Vers et prose”. Questa era l’educazione menagère che, uscendo di scuola ricevette mia moglie. Non c’è da meravigliarsi se tutto ciò che si riferiva all’andamento di una casa fosse per lei un mistero”
Che commovente indulgenza da parte di un marito! Cosa se non un amore fuori dal comune, può rendere così comprensivi?
E meno male che per la figlia del “del Principe dei poeti ” il vivere in maniera del tutto precaria non era affatto una novità:
Gino:
“Jeanne non aveva paura della miseria, l’aveva sempre vista intorno a sé, ma bisogna dire che la miseria di un’artista non è come quella di un piccolo impiegato, è tutta un’altra cosa.
L’artista è grandioso, internamente ricco, e mai schiacciato anche nella miseria; inoltre da un momento all’altro, non fosse che per un giorno od anche meno, può divenir ricco, mentre l’impiegato quando è povero, lo è irrimediabilmente, senza speranza, sostanzialmente e apparentemente.”
Questo soggiorno italiano che le circostanze fin da subito avverse alla coppia avevano reso “obbligato” impedendo, oltretutto, al pittore di tornare a Parigi proprio quando quella città era in pieno fermento culturale ed i nuovi movimenti artistici stavano vivendo un momento cruciale per la loro affermazione, era poi dovuto terminare bruscamente, e prima che Gino fosse veramente guarito, perché Jeanne era già in attesa di Gina, la loro prima figlia e, proprio allora, il 28 Luglio 1914, era scoppiata la guerra, la prima guerra mondiale.
Gli sposi non potevano certo rischiare che i problemi creati dal conflitto potessero in qualche modo impedire “sine die” il loro ritorno in Francia.
Un rimpatrio, anche questo “obbligato”, che causa dell’assoluta impossibilità dei due giovani di pagarsi il biglietto ferroviario, si trasformò per gli sposi in un tribolatissimo travaglio che solo una più che generosa definizione potrebbe qualificare come “viaggio di ritorno”: fu infatti solo grazie all’autorevolezza data al padre di Jeanne dal suo titolo onorifico che gli sposi riuscirono ad ottenere che l’Ambasciatore inglese intercedesse affinché la Questura di Roma, riconosciuta l’assoluta indigenza della coppia, rilasciasse ai due giovani un “foglio di rimpatrio” ed un biglietto ferroviario Roma – Parigi valido però solamente per il percorso più lungo ed in quarta classe quando ormai era già giunto l’ autunno.
…Genova,.. Ventimiglia,.. Marsiglia, ecc..ecc..ecc.. , lunghissime attese tra una fermata e l’altra, notti trascorse in modo terribilmente scomodo e Jeanne in attesa di Gina: un’odissea durata nove o dieci giorni e con i pochissimi soldi che erano stati il frutto di una piccola colletta fatta, come al solito, da alcuni amici: che altro doveva succedere perché l’incanto esistente tra due innamorati si incrinasse almeno un po’?
Eppure…
Gino:
“Debbo dire però che fin dall’inizio della nostra unione, Jeanne ed io abbiamo sempre cercato di convertire in cosa gradevole od utile quello che ci si presentava sotto i più disasrosi aspetti e spesso, nel corso della nostra unione, ci siamo riusciti. Così anche questo penoso viaggio divenne, in fondo, un secondo viaggio di nozze. Eravamo in una radiosa stagione autunnale , tutte le belle città che traversammo, da Genova in sù erano inondate di luce …barche, paesaggio, piazzette. Jeanne ed io eravamo entusiasmati … ”
Un secondo viaggio di nozze…Quella sera alla Closerie Cupido doveva aver scelto due frecce veramente molto speciali!
Come accettare di buon grado, altrimenti, il ménage parigino che li attendeva in una casa piccola in cui erano costretti a convivere, e molto miseramente, con nonna, mamma, cugino di Jeanne?
Un’ abitazione, per giunta, le cui stanze erano quasi interamente occupate dalle vecchie copie della rivista simbolista “Vers et prose”, quella che già lo sappiamo, era stata l’unico impegno a cui per anni si era dedicata la famiglia di Paul Fort :
Gino:
“Mucchi di riviste andavano da terra al soffitto, in ognuna delle stanze dell’appartamento. Questi mucchi erano utilizzati inoltre come mobili. Così quando si diceva “prendi quella data cosa che è sul “buffet” oppure sul “piano” si alludeva ad un mucchio di riviste, ricoperte di una stoffa, che per noi figuravano quei mobili. Tutto ciò lasciava appena il posto per i mobili veri indispensabili…”(1)
Quella casa, per giunta, costituiva una vera minaccia per la sempre precaria salute dell’artista ed altrettanto inadeguata era per quella di Gina, la bambina che nacque di lì a poco, e come lo fu più tardi per quella di Tonio, il figlio maschio che venne al mondo dopo qualche tempo, bimbo che, nonostante fosse stato dato a balia proprio per sfuggire ai disagi di quella scomoda e malsana convivenza, non riuscì comunque a sopravvivere.
La guerra, poi, non contribuiva di certo a migliorare la situazione ma concorreva, semmai, a complicare sempre di più la loro vita, a render la loro miseria sempre più nera, oltre che, naturalmente, a rimandare a tempi migliori, ma chissà quanto ancora lontani, quel successo professionale di Gino che ancora per un buon numero di anni si sarebbe accresciuto in termini di consenso di critici e di estimatori ma non altrettanto di soddisfazioni economiche. Quelle purtroppo rimanevano ancora pressoché inesistenti.
E anche se in seguito, con la fine della guerra e con il progressivo affermarsi anche in campo internazionale della stima per le capacità artistiche del pittore cortonese, la situazione finanziaria della famiglia Severini-Fort ebbe un lento ma costante miglioramento, non si può certo dire che in breve tempo amene pianure fiorite da attraversare si sostituissero alle ripide e scoscese montagne che i due sposi avevano dovuto scalare fino ad allora: li aspettavano ancora, insieme all’incertezza economica che sempre travaglia la vita di qualsiasi artista, anche del più apprezzato, le preoccupazioni per la salute di Gino sempre e comunque oltremodo delicata e precaria, e, purtroppo, il dolore atroce per la morte prematura di un altro figlio: Jacques.
Tutto però coraggiosamente affrontato, tutto superato con grande spirito di adattamento e sempre e comunque insieme e senza che mai il loro modo fiducioso di vedere la vita ed il loro legame ne venisse logorato:
“Se mi avesse detto “facciamoci maomettani” mi sarei fatta maomettana…” confesserà Jeanne giunta alla ragguardevole età di 86 anni e ormai sola da ben più di tre lustri, al critico d’arte Maurizio Fagiolo dell’Arco curatore del catalogo “Gino Severini prima e dopo l’opera” pubblicato in occasione della mostra organizzata dal Comune di Cortona nel 1983 per festeggiare il centenario della nascita del pittore : “Non è che andasse tutto liscio, litigavamo spesso ma sempre con la convinzione profonda del nostro amore: è molto meglio nel matrimonio la difficoltà che i bei fiori e i balli insieme. Sono sicura che le difficoltà della vita, la mancanza di soldi aiutano molto a fare un buon matrimonio (difatti il nostro è durato 53 anni). Una vita mondana non l’abbiamo mai fatta, aveva anche poca salute e avevamo poco danaro: tutto ha aiutato (qualche volta un aspetto negativo può anche essere positivo). Lavorava, lavorava, lavorava. Anche in vacanza prendeva in affitto una piccola casa di due o tre stanze, al massimo verso il mare, con diritto di cucina, generalmente in Normandia: mai in questi tre mesi Gino ha messo il naso in una spiaggia, è sempre rimasto in casa a lavorare. Il più bello è che non faceva case di mare, ma quadri che avrebbe potuto fare a Parigi. Prendeva un’anatra, un pollo vivo, gli legava le zampe, lo metteva sul tavolo e dipingeva; (diceva mi occorre un pesce di 50 cm. Oppure di 33 cm.). anche alle Halles, ai mercati centrali, andava a prender un pesce sempre col metro e non gli importava se era fresco o no: insomma era un puzzo, non si poteva respirare, ma lui metteva un cencio bagnato sopra e, siccome l’aveva aiutato a lavorare, l’avrebbe anche mangiato”
Avrebbe potuto una donna ordinaria e conformista, una donna poco dotata di ottimismo e senso dell’ironia, accettare con tanto entusiasmo una vita così scarsamente “allineata” e terribilmente scomoda e continuare a sostenere con tanta convinzione che non è la tranquillità economica, non sono i divertimenti e la vita mondana ad aiutare una coppia ad affrontare la vita in modo più sereno, ma ciò che è invece indispensabile per far marciar bene un matrimonio è il saper applicare la tecnica giusta nell’accostamento dei colori esattamente come farebbe un bravo pittore per dipingere le proprie tele? In perfetto accordo, come sempre, con il marito che a suo tempo aveva sostenuto:
“..in modo più o meno istintivo ma guidato dall’amore, avevo fin dal principio cercato di dare a questa nostra vita una seria e solida costruzione. In fondo due sposi sono due forze complementari che si affrontano; i discorsi popolari pretendono che talvolta sono le donne, e talvolta sono gli uomini, ma nelle unioni veramente felici, non sono né gli uomini né le donne, poiché vi è armonia. Io considero le due forze opposte in presenza come due colori complementari, per esempio il giallo e l’oltremare; se, messi uno vicino all’altro questi due colori producono una violenta dissonanza, è segno che devo spostare un po’ il giallo verso il giallo-verde, e l’oltremare verso il violetto; così portando giudiziosamente i colori alla gamma necessaria si ottiene l’armonia. In questa teoria da pittore,di comune accordo accettata da mia moglie e da me, si può comprendere ogni teoria di vita e di rapporti umani, e ancor più stabilire una costruzione di vita, fra due sposi, nei quali l’amore facilita tutti gli spostamenti di gamma necessari.
Bisogna credere che il mio sistema è buono perché l’armonia stabilita al principio della nostra unione è durata sempre, e gli elementi negativi e oscuri che non ci sono stati purtroppo risparmiati, non vi hanno prodotto cambiamenti sensibili”
E l’adolescente che in un giorno di fine agosto dell’anno 1913 aveva detto il suo squillante “sì” ad un uomo, che solo per età, cultura e tradizioni era così diverso da lei, giunta a quello stadio della vita in cui si possono fare bilanci definitivi senza paura che gli eventi li possano ormai smentire, confessa ad Aldo e Jolanda Quinti, curatori del volume “Severini e Cortona, “Auf! mi è andata bene!”, come tirando un sospiro di sollievo e dando ulteriormente prova che niente, neanche l’età avanzata, neanche la morte di Gino, erano riuscite a logorare l’eccezionale schiettezza e genuinità che l’avevano sempre accompagnata nel corso della vita.
Jeanne:
“Come tutti sanno un matrimonio riuscito è sempre dovuto a diverse componenti, talvolta imponderabili, ed è da ricostruire (o almeno impedire che si rovini)ogni giorno, ogni ora di quanto deve durare questa unione. Quando alla fine di una lunga vita si può dire “Auf! Mi è andata bene” è una gran vittoria da celebrare. Ma non c’è da inorgoglirsi da solo o da sola, perché questa vittoria è opera delle due parti, e non è facile arrivarci”
e ancora, rievocando le sue ultime estati passate a Cortona con Gino:
“Quando lui sedeva fuori dal bar, c’erano sempre tante sedie che lo aspettavano messe fuori appena lui appariva da lontano col suo passo che si faceva sempre più lento. Era al mio braccio di solito, era difficile che fossimo l’uno senza l’altro. E la gente cominciò a pensare a lui pensando a “noi” come una sola presenza. Un po’ come fa dappertutto, più di mezzo secolo passato insieme. Ed è per questo che ancora adesso, dopo dieci anni dalla separazione, mi pare sempre di camminare con la metà di me stessa”
Una vita insieme, difficilissima ed aspra, ma sempre tenacemente unita.
Un sodalizio indistruttibile visto che ancor oggi, dopo cento anni da quella famosa sera alla Closerie, sono ancora insieme, nel cimitero di Cortona, all’interno di un sarcofago scelto la loro stessi che contiene, insieme alle loro spoglie, le lettere che Jeanne aveva messo sopra il cuore di lui prima di dargli l’ultimo addio, lettere che Gino aveva scritto a lei, la “principessa dei poeti” quando il loro amore stava nascendo.
In quel sarcofago, attraverso le epigrafi inscritte nelle loro rispettive lapidi, i due sembrano parlarsi ancora: una promessa quella di lui , “Non omnis moriar” “non morirò del tutto” e una conferma dell’ entusiasmo con cui aveva affrontato la loro spericolata avventura matrimoniale quella di lei“Omnia vincit amor” “l’amore vince su tutto”.
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NOTE:
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Gino SEVERINI: “TUTTA LA VITA DI UN PITTORE” -Editrice Garzanti -Cernusco sul Naviglio1946;
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“SEVERINI E CORTONA” a cura di Aldo e Jolanda Quinti – Stampato per Officina Edizioni Roma dalla Staderini S.p.A Pomezia Luglio 1976;
Lino MANNOCCI: “SCENE DA UN MATRIMONIO FUTURISTA” – Neri Pozza Editore – Grafica Veneta Trebaseleghe (PD) 2021;
“GINO SEVERINI PRIMA E DOPO L’OPERA” a cura di Maurizio Fagiolo dell’Arco – Electa Firenze – Conti Tipocolor Calenzano (FI);
Baccio Maria Bacci:da “Giornale di Bordo anno III n. 2 Dic. 1969 – Gennaio 1970 pp. 161-162);
Piero Pacini: “INCONTRI CON GINO SEVERINI E I SUOI ESTIMATORI” Accademia Etrusca – Cortona – Note e documenti, vol. 22 – Casa Editrice Leo S. Olschki – Firenze 2017.