Quintilio Bruschi, originario di Cignano, dimostrò genialità non avendo studiato disegno né frequentato accademie artistiche, né musei e gallerie d’arte, riconosciuto dalla critica come notevole scultore del Novecento avendo realizzato numerose opere lignee di varia grandezza.
Ex contadino, a cinquantanove anni s’alzò con l’impellente desiderio di scolpire: “altrimenti morivo”. Se n’andò a comprare cinque scalpelli, e da quel giorno dette sfogo alla nuova passione. Artista per caso. Dalla critica la sua opera fu iscritta alla categoria “art brut” (arte rozza), codificata in Francia dal pittore Jean Dubuffet nel secondo dopoguerra, in contrasto con le accademie; in Inghilterra, definita arte “outsider” dallo storico Roger Cardinal (1972): “sono grosso modo le persone che hanno fatto in modo da tenersi distanti dalle disinformazioni della cultura e che malgrado un certo debito con la folk art riescono ad esprimere uno stile personale. Sono dei portatori sani di una creatività che scorre al di fuori del mondo ufficiale e delle gallerie”. A dimostrazione del rilievo d’una simile arte innovativa viene ricordata la battuta di Picasso: “Quando ero bambino dipingevo come Michelangelo. Mi ci sono voluti anni per imparare a disegnare come un bambino”. Insomma, Quintilio, da scultore, cantava come un uccello senza aver studiato alcuno spartito.
Come tanti altri, ne visitai lo studio laboratorio sul rettilineo che da Valiano va ad Acquaviva, ricevuto da un Quintilio amichevole e gentile (m’invitò pure a cena). Già ultrasettantenne, era in buona forma fisica. Longilineo, spalle robuste lievemente ricurve, pizzetto chiaro, sguardo attento. Con un occhio lievemente più socchiuso dell’altro, in perenne movimento, puntava tra l’ospite e le sue creature lignee tirate a lucido profumate con cera d’api. Mentre le carezzava, ne ricordava la denominazione, il legno usato, il significato,…in poco tempo si era avvinti nel suo mondo fantastico.
Su quello spontaneismo artistico giunsi alla stessa conclusione di Stefano Malatesta (La Repubblica del 7 luglio 1977): le opere di Bruschi “dimostrano anche che la teoria del bambino o del selvaggio è ingannevole, perché, come a suo tempo Rousseau, le fonti [di ispirazione] ci sono e numerose, anche se irrintracciabili oggi, in quanto effimere al momento della composizione”. Quintilio alcune ispirazioni le suggeriva da solo: dalla struttura del legno: venature, nodi, dimensioni spaziali; dai volti di persone che l’avevano colpito; da figure mitiche nell’immaginario contadino e della tradizione religiosa (Cristi Madonne) ,… Nel suo tumultuoso spontaneismo, erano nati pure oggetti somiglianti a maschere e figure presenti nell’arte pre colombiana, adornate con collane ricavate concatenando piccole radici sferoidali di scopa d’erica, levigate e cerate.
Aveva il pallino della qualità e stagionatura del legno, presso un grossista delle Chianacce, che glielo invecchiava artificialmente in modo da impedire che, nel tempo, si “muovesse” e fratturasse.
Fra i numerosi acquirenti, ammiratori e promotori artistici, Quintilio ricordava con particolare simpatia il giornalista Rai Ettore Masina, al quale pare si attribuisse l’affermazione della somiglianza tra alcune sue statue e l’arte precolombiana: figure sciamaniche anche a più teste sovrapposte. Su quelle analogie, Quintilio si stava documentando su cataloghi di mostre in tema. Come a dire: ci sono arrivato per caso a scolpire come i nativi amerindi, con risultati non male. Che ti pare? Era la sua domanda per sincerarsi sulla condivisione e apprezzamento dell’ospite, in quel brulicante laboratorio di fantastiche creazioni. Misto di verosimiglianze e astrazioni (per gli estranei, perché per lui era tutta creazione verosimigliante).
Scolpiva anche superfici piatte, dalla dimensione di una formella o circolari come le basi d’un tronco d’albero, su cui incideva, fregandosene di prospettiva e proporzioni, eleganti figure femminili e maschili, maternità e soggetti mescolanze di sincretismi religiosi, superstizioni contadine e scene di vita agreste.
Quintilio aveva un fratello, Gino, anch’egli scultore del legno in stile ridotto, simili ai Moai dell’isola di Pasqua creava busti squadrati appena sgrossati; figure maschili oblunghe ornate d’un cappelluccio in testa, non calato, bensì appoggiato a formare un tutt’uno: busto, testa, cappello. Strani funghi, alti meno di mezzo metro. Gliene acquistai uno. Per Gino, raffigurava Rogo delle Chianacce.
Quintilio, in vita, ebbe numerosi riconoscimenti commerciali ed esposizioni delle sue opere, tra cui ne ricordava una nel suo comune di residenza (Montepulciano), una a Cortona, un’altra persino in Vaticano e una nei Cantieri Culturali della Zizza di Palermo (1977). Di cui resta il bel catalogo Mazzotta, curato da Alessandra Ottieri, e il resoconto sull’evento del critico Stefano Malatesta (già citato) su La Repubblica.
Alla sua morte le numerose opere residue furono spartite tra gli eredi, perciò vennero disperse.
Quindi non è possibile indicare una collezione dove poter ammirare, anche in piccola parte, l’opera di Quintilio Bruschi, che resterà per sempre il geniale artista di origini contadine cortonesi. Dall’espressività potente, fantastica, profumata di cera e di amore per la natura, l’uomo, i suoi miti e i suoi sogni. Persona umile che si è fatta grande con la creatività, di cui ognuno è portatore avendo il coraggio d’esprimerla.
www.ferrucciofabilli.it