L’elezione di Macron a presidente francese rappresenta uno spartiacque politico, in Francia e in Europa, per quanti ancora si dicono a sinistra. La sinistra infatti è divisa tra soddisfatti e delusi dalla virata secca verso il liberismo, senza se e senza ma, rappresentata da Macron.
Prodotto di Hollande – socialista (?!) che definì i proletari “i senza denti” – presidente dal più basso indice di popolarità dopo l’adozione, tramite l’allora ministro Macron, di una normativa sul lavoro, simile a quella italiana, suggerita dal “mercato”, ergo dall’alta finanza da cui Macron proviene.
Ma allora, dopo aver assistito in Francia a imponenti e durature proteste contro quella legge, com’è riuscito ad essere eletto Macron al posto d’Hollande? E senza aver fatto un grande strike di voti al primo turno, anzi, con la differenza di pochi decimali tra lui e altri tre candidati presidenziali?
Leggendo i numeri, si direbbe che una grossa mano gli sia venuta dall’astensionismo (un terzo degli elettori) e dalla soap opera di Macron che è piaciuta più di quella della Le Pen (è scritto sulla Repubblica di oggi). Infatti l’alto voto operaio a favore della Le Pen fa intendere che la pregiudiziale antifascista sia risultata secondaria, mentre sarebbero stati determinanti altri fattori. Per primo il favore unanime dei media per Macron, oltre al serrare le fila dei partiti che si sono barricati, per la loro sopravvivenza, dietro al candidato meno peggio dei due, convinti che il loro voto sarà necessario per tenere in vita la quinta repubblica.
Ma il dato certo è che mentre la destra a riprendere consensi potrebbe riuscirci – vista la sconfitta non catastrofica del suo squalificato candidato Fillon, ostinato a restare in gara oltre la ragionevolezza -, al contrario, la sinistra socialista di governo è precipitata ai minimi storici, salvandosi bene, invece, la cosiddetta “sinistra populista” di Mélenchon. Che, va detto, non rappresentava questo o quel partito ma un’idea di sinistra critica e risoluta verso il governo nazionale ed europeo.
Senza troppe forzature, già c’è chi paragona Renzi a Macron. Renzi, agevolato dai fuorusciti dal PD e sostenuto dai voti alle primarie delle pantere grigie (l’età media dei suoi elettori, dal Corriere della Sera, viene stimata in sessantaquattro anni), sta raggiungendo la rottamazione prefissata. Con una linea politica già definita e praticata, neoliberista, più estrema di Berlusconi, suo passato e futuro alleato, a legge elettorale proporzionale vigente che, com’è probabile, resterà invariata.
Ma ci sarà un Mélenchon italiano?
La situazione sembra piuttosto complicata. Ad oggi marciano ciascuno per conto proprio: Civati, Pisapia, Sinistra Italiana, e quelli di Art. Uno, che puntano su Speranza, “più giovane di cinque anni di Renzi”. Divisi tra loro, con lo sbarramento al proporzionale, rischierebbero quasi tutti di restar fuori dal parlamento. Che per Art. Uno sarebbe la catastrofe. Dopo aver fatto da sponda e donato sangue elettorale al rampante e, oggi, inviso Renzi. Il quale già ha annunciato che non si alleerà con la compagnia di Speranza e Bersani (Ne ha dette di balle, questa affermazione sarà vera?). Mentre costoro si prodigano a dire che l’obiettivo principale è ricostruire un centrosinistra insieme al PD, smussandone eccessi neoliberisti.
Giorni fa, qualcuno chiese al novantenne Rino Formica un parere sulla scissione del PD, lui – che di scissioni socialiste è esperto fin dal dopoguerra, da palazzo Barberini in su – s’è mostrato molto perplesso. A suo avviso, per costruire un nuovo soggetto politico credibile, c’è bisogno d’un progetto forte, che non ha Art. Uno.
Può una frammentata diaspora a sinistra dar vita a un nuovo soggetto politico credibile, non avendo quasi più le pantere grigie che han fatto la scelta di star con Renzi? E senza appeal verso i giovani orientati a movimenti critici e radicali? Ad oggi, Art. Uno, più che altro, sembra un tentativo di far riemergere figure passate anche in modo contraddittorio. Leggevo infatti in questi giorni, su Facebook, che ci sarebbe l’orgoglio di ridare fiato ad aspirazioni patrimonio storico della sinistra (non male come idea) candidando a guidare Art. Uno l’ex sindaco di Cortona, che “non è stato nemmeno comunista” era scritto quasi con orgoglio. E, soprattutto, non è riuscito nel suo Comune a prendere tutte le preferenze espresse dal suo partito in occasione delle elezioni regionali, e questa è stata la ragione principale della sua uscita dal PD.
Se lo stesso criterio selettivo dei quadri dirigenti venisse applicato su vasta scala, sarebbe evidente l’obiettivo di Art. Uno: far riemergere personaggi politici esausti. Per di più, e peggio ancora, non ancorati, al contrario di Mélenchon, a una robusta e credibile linea politica.
Perciò, più che ragionare sugli errori di Renzi (da scappatardi, gli elettori del referendum di dicembre c’erano già arrivati!) sulla base di circostanziate analisi, si dovrebbero fornire prospettive, non solo suggerimenti di dettaglio su questo o quel provvedimento governativo. Il Governo, infatti, una linea ce l’ha: assecondare la globalizzazione.
Forse è semplicistico, ma oggi che si tende sempre più a scrivere e parlare per schemi (populismo, antipopulismo, globalizzazione, Brexit, antieuropei, europeisti… e chi più ne ha più ne matta) meriterebbe rispondere, come suggerisce il filosofo Diego Fusaro, a una domanda: si vuol stare dalla parte dell’1% del mondo o dalla parte del 99%?
E da lì aggiustare il tiro su alleanze politiche, su proposte da fare e sui provvedimenti da approvare o respingere.
Ricordiamo che nel referendum costituzionale recente, oltre il 60% della popolazione si è pronunciata contro il progetto di riforma imposta dalla finanza mondiale, dunque si tratta di una discreta fetta di elettorato pronta a recepire messaggi che vedano partiti e movimenti dalla sua parte.