Il mistero degli ingredienti e della tecnica della produzione della porcellana assillava fin dal 1200 l’Europa. Fin da quando Marco Polo e altri viaggiatori di ritorno dalla Cina avevano importato oggetti di questo finissimo e sconosciuto materiale, nel mondo occidentale si era tentato inutilmente di scoprirne il segreto. Nel 1575, ad esempio, a Firenze, nei laboratori di alchimia di Francesco I de’ Medici, si era riusciti ad ottenere una “porcellana a pasta tenera” che però per la presenza in essa di numerose bollicine e screpolature non si poteva dire tecnicamente perfetta. Per questo motivo non si era ritenuto giusto continuare a produrla ed anche la sperimentazione era stata interrotta.
Nel 1708, però, a Meissen, in Germania, l’alchimista J.F. Bottger riuscì finalmente ad individuare i due componenti basilari dell’impasto e nel 1710 in quella città tedesca nacque la prima fabbrica di porcellane. Nell’arco di pochi anni furono aperte così la Du Paquier a Vienna (1719), la Vezzi a Venezia (1720), la Ginori a Firenze (1737), la Real Fabbrica di Capodimonte a Napoli (1743), e la fabbrica di Sèvres, in Francia (1745)
Ma quali sono stati gli eventi che hanno permesso che proprio dalla nascita della manifattura di porcellana di Capodimonte si creassero le condizioni grazie alle quali Curzio Venuti potesse avviare l’attività di produzione di ceramica a Catrosse, località ai piedi della collina cortonese? Cercherò di limitarmi a descrivere solo i passaggi essenziali, ma questa storia, che coinvolge nella storia nazionale i membri di una famiglia cortonese è appassionante e vale la pena di essere conosciuta almeno a grandi linee.
“Cortona nel settecento era ben lungi dall’essere un luogo di provincia, ma un vero e proprio centro culturale”. (Procacci: “Opere del Piazzetta e della sua bottega a Cortona”)
Questa fama che varcando i confini locali rendeva Cortona conosciuta ed ammirata a livello nazionale era dovuta a diversi personaggi eminenti nel campo della cultura tra i quali spiccavano i membri della famiglia Venuti.
Marcello, Ridolfino e Filippo Venuti avevano infatti fondato, nel 1727, l’istituzione che, chiamata inizialmente “Società per la compra di libri”, si era trasformata poi nell’ “Accademia Etrusca” che precorrendo i modelli di prestigiose accademie italiane e straniere , si proponeva di aiutare i ricercatori a condurre studi seri e approfonditi su argomenti che riguardavano oltreché la storia e l’archeologia anche le scienze.
Marcello per questi ed altri meriti, era stato nominato Gran Conservatore dell’Ordine di Santo Stefano e nel 1734 aveva raggiunto Napoli insieme al fratello Girolamo. I due i erano stati attratti dalla vivacità culturale che caratterizzava questa città da quando era salito al trono Carlo di Borbone, anche lui Membro dell’Ordine di Santo Stefano.
Carlo, capostipite della dinastia borbonica a Napoli, non solo aveva sottratto la città alla dominazione straniera, ma aveva anche aveva inaugurato un periodo di rinascita politica, ripresa economica e sviluppo culturale. Si devono infatti a questo Re tante innovative e ammirevoli iniziative nei più svariati campi: in politica economica, politica estera, religiosa, commerciale, e anche in politica culturale. Grazie a lui erano state costruite diverse opere architettoniche come ad esempio il Teatro San Carlo, la Reggia di Capodimonte e la Reggia di Caserta e si era dato corso a importanti scoperte archeologiche.
Fu proprio Carlo che affidò a Marcello Venuti il compito di formare la Biblioteca Reale. E non solo: al nostro concittadino il Re di Napoli assegnò anche il prestigioso incarico di riordinare le casse di quei preziosi oggetti provenienti da Parma che facevano parte della collezione di proprietà di sua madre, Elisabetta Farnese. Tali oggetti e opere d’arte furono sistemati e conservati nella celeberrima “Galleria Farnese” di cui Marcello fu nominato Direttore. Per di più, nel corso di questi anni di soggiorno a Napoli, il nobile cortonese partecipò perfino alle prime scoperte delle antichità nascoste sotto la città di Ercolano. Per questi suoi meriti fu insignito dell’ambito titolo di Marchese di Cuma.
Marcello, che nel 1740 aveva dovuto tornare a Cortona e stabilirvisi per assolvere gli impegni dovuti alla gestione del suo patrimonio, nel 1750 morì prematuramente lasciando la vedova trentatreenne e i nove figli tutti molto piccoli. Molto probabilmente fu per la grande stima da lui guadagnata per aver svolto così egregiamente i prestigiosi incarichi affidatigli dal re di Napoli che Domenico, uno dei nove orfani, venne chiamato, appena dodicenne, alla corte borbonica per essere educato a spese della Corona presso la Real Paggeria, istituzione presso la quale venivano formati i migliori funzionari del Regno.
Intanto, nel 1743,Carlo di Borbone, insieme alla moglie Maria Amalia di Sassonia, aveva fondato, all’interno della Reggia di Capodimonte la Real Fabbrica, quella manifattura che fu una delle prime a produrre oggetti di alto valore artistico in “porcellana” in Italia e che con il nome di “porcellana di Capodimonte” si fece conoscere ed è ancora conosciuta in tutto il mondo.
Nel 1759, però, Carlo lasciò Napoli per succedere nel trono spagnolo al Re di Spagna, suo fratello, nel frattempo deceduto.
La di passione di Carlo per la produzione di porcellane era tale che decise di smontare gli impianti della manifattura di Capodimonte e di portare con sé, oltre a grandissime quantità di argilla, anche le maestranze, i tecnici e gli artisti ai quali era dovuto il gran successo della fabbrica napoletana. Una volta a Madrid, con tutto ciò che si era portato da Capodimonte, Carlo aprì una nuova fabbrica nei giardini del Buen Retiro.
A reggere il trono di Napoli era rimasto il terzogenito di Carlo, Ferdinando IV che al momento aveva solo nove anni. Una volta maggiorenne il giovane regnante decise di riaprire la fabbrica di porcellane che tanto lustro aveva dato a Napoli e nel 1771, dapprima a Portici e dopo tre anni all’interno della Reggia, fu riaperta la Manifattura che venne denominata Real Fabbrica Ferdinandea.
Nonostante la Real Fabbrica Ferdinandea sia nata, a una quindicina di anni dalla chiusura di quella di Capodimonte e che in questa ci si sia serviti di nuove maestranze, nuove forme, nuovi materiali e si sia applicato un nuovo indirizzo artistico, nell’immaginario collettivo le due fabbriche sono diventate una cosa sola: Capodimonte.
Nel 1779 fu chiamato alla Direzione di questa manifattura Domenico Venuti, il quale, come ho già detto, rimasto orfano di Marcello era partito da Cortona per andare a studiare a spese della Corona napoletana presso la Real Paggeria. di Napoli. Degno prosecutore della tradizione della famiglia Venuti, Domenico si distingueva per essere un uomo colto, con profonde conoscenze storiche e archeologiche, preparatissimo sia sul piano scientifico che artistico.
A Domenico non fu affidata soltanto la Direzione amministrativa ma anche quella artistica della fabbrica e fece vivere a quest’ultima, tra il 1780 e il 1800 il suo periodo di massimo splendore. Apportò infatti diverse migliorie chiamando a Napoli non solo nuovi tecnici ma anche e artisti che avevano lavorato nella fabbrica di Venezia ed i migliori della fabbrica Ginori di Doccia.
Nel periodo della Direzione Venuti i rapporti tra la Ginori e Capodimonte furono costanti, vediamo infatti che a Napoli in questi anni si eseguirono forme e decorazioni molto simili a quelli di Doccia e si usò una porcellana a pasta dura simile al “masso bastardo” prodotto a Doccia che a Napoli veniva chiamata “porcellana ad uso di Firenze” mentre a Doccia si produceva una maiolica detta “ad uso di Napoli”
La cosa più importante, però, ai fini della nostra storia, fu che a Napoli, negli anni della direzione di Domenico Venuti, anche se soltanto nel triennio 1782-1785 e per una produzione molto limitata nella quantità, si cercarono e applicarono le tecniche per la creazione della nuovo tipo di ceramica denominato in Italia “terraglia all’uso inglese” , la stessa che poi la fabbrica di Catrosse produsse per prima in Toscana.
Infatti nel 1795 Curzio Venuti si era recato a Napoli insieme al Conte Baldelli per visitare, guidato dal fratello Domenico, gli scavi di Ercolano e Pompei e approfittò sicuramente di questa occasione, per visitare anche la fabbrica di Napoli che era diretta appunto dal fratello e, altrettanto sicuramente, grazie a lui ebbe modo di rendersi conto e studiare tutti i problemi amministrativi tecnici e artistici relativi all’impianto della manifattura che dopo un anno venne aperta a Catrosse.
Gli ultimi documenti ritrovati comprovano che, contrariamente a quanto si è creduto fino a qualche tempo fa, in pratica il vero e proprio fondatore della fabbrica di Catrosse è stato Curzio Venuti, ma sicuramente fondamentale è stato il ruolo del fratello Domenico grazie al quale Curzio avrà avuto tutti i consigli ed i ragguagli tecnici indispensabili per la creazione della ceramica, ma anche e soprattutto quelli per la produzione della terraglia molto meno facilmente producibile.
E’ anche, inoltre, molto probabile che alcune forme usate a Catrosse possano esser state fatte arrivare da Napoli anche se sappiamo che fin dal 1796, anno della sua apertura, nella fabbrica lavoravano in pianta stabile almeno due bravi modellatori che firmavano gli stampi. Dalla comparazione della produzione, inoltre, possiamo vedere che le ceramiche prodotte nella nostra fabbrica avevano sempre e comunque qualche particolare, come ad esempio il fondo baccellato, la forma ellittica, l’orlo a ondine, che la distinguevano sia da Napoli che da Doccia.
Di quello che è successo dal momento della fondazione di Catrosse e degli anni in cui fu una valida risorsa economica e un vanto per il nostro territorio ho già parlato negli articoli precedenti, pertanto rimane solo da spiegare perché, nonostante il grande successo riscontrato nella raffinata ed elegante produzione di terraglia e di ceramica, dal 1820-1830 in poi la fabbrica restrinse sempre di più la sua produzione a quella di oggetti di uso comune e quotidiano fino a cessare l’attività nel 1910.
Le cause di questa morte lenta della nostra fabbrica sono state senz’altro queste: nel 1819 Curzio morì ed il suo successore Ludovico, figlio di Domenico, nato a Napoli e cresciuto a Roma, probabilmente non doveva nutrire grande interesse ad impegnarsi personalmente nella conduzione della fabbrica visto e considerato che preferì affidarne la direzione all’amministratore Baracchi e seguire le vicende della manifattura da lontano.
Se aggiungiamo a questo l’inevitabile progresso industriale e la politica economica locale sostanzialmente tendente a sostenere e proteggere l’economia quasi esclusivamente agraria, riusciamo a capire perché un’ attività che, se avesse continuato fare ricerca sperimentando nuove tecniche e materiali, ammodernandosi nelle strutture, avrebbe potuto rimanere competitiva e continuare ad essere un orgoglio ed un occasione di ricchezza per il nostro territorio, cessò invece lentamente di esistere.
A noi non resta che ricordarla con orgoglio e cercare di conservarne la memoria storica. E’ questo il motivo per cui ho voluto presentarvi il libro da cui ho tratto tutte queste appassionanti informazioni che stanno sparendo dal ricordo collettivo della nostra comunità locale ed è perché le immagini rendano più facile ricordare con ammirazione gli oggetti che con grande maestria a Catrosse si producevano, che vi ho mostrato tutte le foto che, anche per il presente servizio come per quelli che l’hanno preceduto, ho preso sempre dallo stesso libro.
Ringrazio ancora per la generosità di avermele così di buon grado fornite la Sig.ra Anna Moore Valeri, autrice del libro citato: “Catrosse a Cortona”