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Se Edmondo Berselli (il miglior giornalista degli ultimi anni, secondo chi scrive) fosse ancora vivo, avrebbe oggi potuto commentare la meravigliosa performance di Roberto Benigni e forse rivalutare l’estro di un artista che riesce a combinare lezioni di storia con il nazional-popolare, il serio e il faceto, le burle con la religione. Benigni, si sa, piace a tutti.
E quindi Berselli diceva che i critici sono costretti a parlarne bene anche se non ne hanno voglia. Ma ieri sera Benigni, chiamato a celebrare il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia nel palcoscenico più nazionale che esista, e cioè Sanremo, ha magistralmente superato le aspettative sviluppando una lezione sul valore di sentirsi Italiani e di sentirsi partecipi della grandezza dello spirito italiano.
Tirando in ballo aneddoti e fatti più o meno leggendari delle nostra storia che pochissimi conoscevano, non ha celebrato direttamente l’unità nazionale (come forse avrebbe voluto La Russa), ma ci ha insegnato l’amore per il Paese. Il messaggio che è passato è: prima sentiamoci tutti Italiani, poi possiamo festeggiare la nascita. E poi ancora: distinguiamo bene fra patriottismo genuino e nazionalismo.
Ecco quindi l’eroismo dei Mille, i sacrifici umani come mezzi per un fine eterno, Mameli, Garibaldi, l’orgoglio di persone che, spinte da un’onda culturale travolgente come lo fu il Romanticismo, un giorno si svegliarono e videro che l’Italia era preda degli stranieri. Da parte nostra, osservare un nostro concittadino evocato a simbolo della cultura nazionale, ci rende doppiamente fieri, e forse non è un caso se per fortuna i conflitti sull’identità nazionale qui in Toscana sono quasi assenti.
Ma basterebbe, e secondo me basta, una lezione come questa per compendiare e (azzardo) sostituire tutte le pompose pseudo-celebrazioni istituzionali destinate a occupare spazio nei media, ma che nessuno se le fila. L’immagine vivida di quel tale Balilla – a proposito: ora sapete perché i bambini in età fascista venivano chiamati così – che si ribellò ai soldati degli Asburgo e invitò gli amici a bombardarli di sassi supera di gran lunga qualsiasi discorso politichese di Napolitano o Fini.
La scena del soldato nel campo di battaglia che per farsi coraggio canta dentro di sé, oltre a essere un evidente tributo a certe atmosfere di Ungaretti, sminuisce immediatamente tutti i dibattiti, le parole inutili, i problemi banali di noi contemporanei.Qualcuno ha obiettato che non è vero che la cultura nazionale esisteva prima del 1861, che il soggetto di “schiava di Roma” è invece l’Italia.
Altri hanno fatto notare che Benigni ha dimenticato un po’ delle sue capacità oratorie, perdendo il filo e ripetendo spesso le stesse frasi; altri ancora non hanno riso alla parte comica, che in effetti poteva essere evitata. Ma l’Inno versione unplugged ha ammutolito e commosso milioni di italiani, tanto è geniale e devastante l’attuazione di un’idea in sé semplice. Se Berselli fosse vivo, forse direbbe che per Benigni è stato il canto del cigno