Articolo tratto dalla rivista Libertà Sindacale
L’intervento di Maurizio Benetti sui costi della politica in Italia, apparso recentemente su E&L, merita qualche ulteriore riflessione. Come è noto il tema è oggetto di intermittente attenzione da parte dei media. A volte con intenti moralizzatori, altre con intenzioni scandalistiche e screditanti verso la politica. Tuttavia il problema c’è ed andrebbero create le condizioni per poterlo affrontare concretamente.
A questo riguardo può essere utile individuare alcuni dei suoi termini essenziali nella speranza di contribuire a far nascere dal basso, su ciascuno di essi, la motivazione e l’impegno necessario a far crescere la determinazione per affrontarli e risolverli.
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Incomincio dal numero dei parlamentari. Quando dovettero decidere le dimensione della Camera dei Deputati, i costituenti adottarono un rapporto fra il numero dei parlamentari ed il numero degli elettori simili a quello delle maggiori democrazie occidentali. Oggi la nostra Camera ha 630 membri, la House of Commons britannica 650, il Bundestag tedesco 633, l’Assemblée Nationale francese 577, il Congresso de los deputados spagnolo 350. E’ vero che i 435 membri della Hause of Representatives degli Stati Uniti possono sembrare pochi per un paese che conta oggi circa 300 milioni di abitanti. Ma l’America è dalle sue origini un vero Stato federalista, in cui gran parte del lavoro legislativo e normativo è fatto dai parlamenti degli Stati federati. Come sappiamo la riduzione del numero dei parlamentari è da parecchi anni all’ordine del giorno del nostro dibattito politico. Apparentemente con generale consenso. Tuttavia personalmente credo che il problema prioritario per Parlamento italiano, più che il numero dei Deputati, sia il bicameralismo perfetto. Vale a dire la regola costituzionale che attribuisce alle due Camere gli stessi poteri e le stesse funzioni con l’effetto, quanto meno, di raddoppiare il tempo necessario per l’approvazione di una legge. In proposito è bene ricordare che recentemente sono state approvate una serie di misure con lo scopo dichiarato di trasformare lo Stato in senso federale. In realtà le misure adottate con il federalismo hanno poco a che fare. Trattandosi essenzialmente di uno spot a beneficio della Lega. Tant’è vero che non è stato nemmeno affrontato il problema di trasformare il Senato, come in Germania, in una Camera delle Regioni. Con competenze più circoscritte di quelle della Camera dei Deputati, ma soprattutto con un numero di componenti che (appunto sul modello tedesco) potrebbe essere ridotto ad un quarto (o anche meno) dei membri attuali del Senato.
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Le professioni liberali ed il mandato parlamentare. Storicamente la presenza in Parlamento dei rappresentanti delle professioni liberali è sempre stata significativa ed ha spesso contribuito ad arricchire il dibattito politico. Ma nel corso dei decenni sono però intervenuti almeno due importanti cambiamenti dei quali si dovrebbe assolutamente tenere conto. In primo luogo le condizioni economiche del parlamentare sono cambiate. Era giusto che il professionista venisse autorizzato ad esercitare il suo lavoro quando, come parlamentare, aveva diritto, tutt’al più, ad una modesta indennità. E’ invece inconcepibile che possa continuare a fare anche il suo mestiere quando il mandato parlamentare gli assicura una larga gamma di benefici: salario, indennità per i collaboratori, rimborso di alcune spese, pensione. In secondo luogo i parlamenti hanno progressivamente esteso l’area dei loro interventi con l’adozione di norme destinate a limitare alcuni diritti individuali, a creare alcune aspettative ed a finire, prima o dopo, nelle aule dei tribunali. Sono materie che interessano, in un modo o nell’altro, avvocati, notai, ingegneri, professori universitari, architetti, giornalisti e periti di varie competenze, che si possono trovare in evidente conflitto di interessi. Ci sono quindi solidissime ragioni per pretendere che l’esercizio della professione sia sospeso per l’intera durata del mandato. Per altro vale la pena ricordare che ai membri del Congresso americano è vietato percepire altri redditi che superino il 15 per cento dell’indennità parlamentare. Se lo facessero commetterebbero un reato perseguibile penalmente. Qualora una norma analoga venisse adottata anche in Italia quasi duecento onorevoli con il doppio lavoro e doppio reddito (tra quelli che attualmente siedono in Parlamento) risulterebbero fuori legge. Per rientrare nella norma si vedrebbero costretti a fare una scelta. Il che costituirebbe un contributo non trascurabile alla trasparenza ed alla moralizzazione della vita politica.
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Taglio delle province. Più o meno tutti i partiti lo avevano promesso nelle ultime campagne elettorali. Ma fin’ora non c’è stato niente da fare. Nemmeno per la riduzione del loro numero, o una sforbiciata per quelle delle 14 città metropolitane. Il fatto è sintomatico. Non tanto ai fini della riduzione dei costi della politica. Perché la soppressione delle province non comporterebbe significativi risparmi. In quanto il grosso delle spese provinciali è assorbito da strade e scuole. Se quindi venissero meno le province quelle stesse spese dovrebbero essere messe in capo ad altri enti territoriali. Ma indipendentemente dalla consistenza dei risparmi la soppressione delle province corrisponde ad una esigenza di razionalizzazione e di semplificazione del processo di decisione pubblica, la cui mancanza complica inutilmente la vita ed aggiunge costi indiretti a quelli diretti. Per altro la vicenda delle province è rivelatrice. Di solito si è infatti inclini a ritenere che sia soprattutto il ceto politico refrattario ad ogni cambiamento. In realtà anche la cosiddetta “società civile” non manifesta brividi di entusiasmo. In effetti è bene ricordare che in non pochi casi i cittadini si sono mobilitati, per ragioni di prestigio campanilistico, sia per richiedere l’istituzione di nuove province, che per pretendere il mantenimento di quelle esistenti. E quando la politica si basa sui sondaggi invece che sulle scelte (come succede troppo spesso in Italia) non deve stupire che poi non si combini nulla. Discorso analogo a quello delle province va fatto per le comunità montane e per i comuni. Le prime non hanno alcuna seria ragione d’essere. I secondi sono un numero spropositato e dunque frammentati ed inefficienti. Basti pensare che tra noi e la Gran Bretagna il rapporto è di 15 a 1.
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Lo scandalo delle auto blu. Dopo la crociata sul trasferimento dei ministeri al Nord la cui utilità non va oltre un dissennato aumento delle spese pubbliche, la Lega al Senato si è opposta all’emendamento presentato dal PD per il taglio delle auto blu a tutti gli ex. Cioè tutti coloro che in passato hanno ricoperto cariche istituzionali a livello nazionale. Norma che se approvata avrebbe comportato un milione di euro di risparmi. Certo non è molto. Tuttavia la vicenda è emblematica. Perché è rivelatrice del fatto che la Lega, la quale nei giorni pari arringa i suoi elettori contro Roma Ladrona, nei giorni dispari preferisce mantenere strette le auto blu anche per i suoi ex notabili. Presenti e futuri.
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Stili di vita dei politici. Come si sa, Il ministro La Russa ha usato un aereo di Stato per volare da Roma a Milano dove si recava a vedere una partita di calcio. Secondo le dichiarazioni rese dallo stesso ministro egli si è ritenuto obbligato a farlo per “ragioni di sicurezza”. Il premier britannico David Cameron sembra invece non avere i problemi di sicurezza che affliggono La Russa. Tant’è vero che per andare in vacanza con la moglie ed i suoi due bambini ha utilizzato un affollato volo di linea low-cost della Easy-Jet. Lo stesso ha fatto il leader dei laburisti Ed Miliband che, dovendo partire con la moglie, ha utilizzato anche lui i volo low-cost della Easy-Jet. Due lezioni di modestia e risparmio? Sicuramente. Ma anche una scelta che non fa male all’immagine ed alla reputazione di uomini politici consapevoli che, in tempi in cui i tagli colpiscono duramente le pensioni, la scuola, le biblioteche, gli asili, gli studenti, la politica non può esibire stili di vita arroganti. Soprattutto di disinvolta dissipazione del denaro pubblico. In proposito voglio ricordare un episodio che sottolinea le diversità di comportamento ed abitudini tra i nostri governanti e quelli di altri paesi. All’inizio degli anni ottanta ero a Stoccolma per alcuni incontri con dirigenti sindacali e politici svedesi. Nel programma era previsto anche un colloquio con il premier Olaf Palme. L’incontro con il premier era programmato per la tarda mattinata della domenica in un teatro cittadino, dove Palme doveva tenere un discorso al convegno dei giovani socialisti. Finito il suo intervento, assieme ai principali dirigenti della confederazione sindacale svedese, ci siamo incontrati. Dopo i saluti e qualche primo scambio di battute, Palme, constatato che era ormai passato mezzogiorno, ci chiese se eravamo disponibili a pranzare assieme. Avendo tutti condiviso l’invito ci avviamo al ristorante. A questo punto si verifica un fatto inatteso. Almeno per me. Abituato al rituale spagnolesco della politica italiana. Tutti (compreso Palme) abbiamo infatti raggiunto il ristorante in metropolitana. Di fronte alla mia sorpresa gli amici del sindacato svedese mi hanno spiegato che Palme utilizzava la macchina di servizio solo quando aveva impegni formali di governo. Diversamente si serviva dei mezzi pubblici. Del resto, l’abitudine a mischiarsi con i normali mortali è condivisa anche dal re svedese. Che infatti gira regolarmente in bicicletta per Stoccolma. Da noi invece l’auto blu e la scorta (che nella maggior parte dei casi è una pura esibizione di status) non si negano a nessuno. Basti pensare che è stata assegnata persino a Fede e Belpietro. Anche questi “benefits”, per i potenti e le rispettive corti, sono da annoverare tra i costi diretti ed indiretti della politica. Ed andrebbero quindi eliminati. O quanto meno drasticamente ridimensionati.
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Consulenti, esperti, tecnici, staff. Tra i costi indiretti della politica c’è da includere la massa sterminata di consulenti (o che passano per tali pur includendo, non di rado, pure parentes et clientes) di ministri, sottosegretari, presidenti di Regioni, sindaci, presidenti di enti pubblici. A cosa serva questo esercito è un mistero gelosamente custodito da chi li ingaggia. Di questa moltitudine fanno parte magistrati, professori universitari, giornalisti, pseudo-esperti. Quasi sempre doppio o triplo-lavoristi. E, cosa singolare, non di rado pagati due volte anche con soldi pubblici. Fa quindi piacere che uno dei primi atti annunciati dal nuovo sindaco di Milano Pisapia sia stato l’impegno a disboscare questa ingiustificata proliferazione di prebende. Bisogna tuttavia sapere che il seme è diffuso e la sua natura è maligna. Se si vuole estirparlo occorre innanzi tutto che tutte le pubbliche amministrazioni siano vincolate alla trasparenza, obbligandole a rendere pubblico l’elenco dei consulenti, delle loro funzioni, dei loro compensi.
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Costi chiari e costi oscuri. I potenti tendono a circondarsi di apparati che sono il simbolo od anche solo l’apparenza del potere. In questi casi, il numero è sempre considerato un segno della potenza e del rango. E’ una tendenza alla quale, come sappiamo, il premier è tutt’altro che insensibile. Ciò spiega perché i dipendenti della Presidenza del Consiglio ci costino un occhio della testa. La ragione della liberalità che viene prodigata a Palazzo Chigi non è chiara. Anzi, tutto è così oscuro che non è facile persino capire quant’è l’effettivo numero dei dipendenti. Ci ha provato Sergio Rizzo che ha fatto una inchiesta per cercare di venirne a capo. Secondo le sue conclusioni i dipendenti sarebbero circa 3.500. Per avere un elemento di confronto basterà ricordare che i dipendenti del Cabinet Office del premier inglese David Cameron sono poco più di 1.300. Cioè meno del 40 per cento di quelli di Palazzo Chigi. Il che induce a pensare che Cameron si occupi di meno problemi rispetto a Berlusconi. Oppure che riesca ad occuparsi delle stesse questioni utilizzando meno persone. In ogni caso, tra i dipendenti di Palazzo Chigi un migliaio sarebbero in prestito da altre amministrazioni. Secondo Rizzo per entrare a far parte del personale della Presidenza del Consiglio si farebbe a gomitate. La ragione non è difficile da capire. La paga è infatti più alta del 56,6 per cento rispetto a quella di tutti gli altri ministeriali. (42.951 euro, contro 27.418). Per di più aumenta anche quando per gli altri rimane bloccata. Ad esempio tra il 2007 ed il 2009, la retribuzione del personale non dirigente di Palazzo Chigi è cresciuta del 14,7 per cento, contro appena il 2,7 per cento di tutti gli altri ministeriali. Che spiegazioni possono avere queste differenze? Per quello che è dato di capire, non ne hanno e basta. Tant’è vero che dopo l’inchiesta di Sergio Rizzo La Presidenza del Consiglio non ha ritenuto necessario fornire alcuna precisazione, alcun chiarimento. Si è limitata a fare finta di niente. E tutto è finito lì.
Ovviamente gli esempi che ho segnalato non esauriscono l’intero catalogo dei problemi. Tuttavia essi sono indicativi della diffusa propensione della politica e di ciò che la circonda a privilegiare l’opacità sulla trasparenza. Trasparenza che, al contrario, dovrebbe essere invece considerata una regola inderogabile. La posta in gioco infatti non sono solo i risparmi che con la riduzione dei costi (diretti ed indiretti) della politica possono e debbono essere fatti. Risparmi in ogni caso irrinunciabili. Tanto più necessari in una congiuntura nella quale la spesa pubblica non è nemmeno più in grado di finanziare consumi e servizi essenziali. In gioco comunque c’è qualcosa di ancora più grande. Ed è il valore stesso della politica. Perché se le istituzioni non sono percepite e vissute come case di vetro è inevitabile che cresca il disamore per la politica. Che è sempre la spia di un ancora più grave disamore per la democrazia. E di questo, finché siamo in tempo, dovremmo tutti preoccuparci
Pierre Carniti