Delle tre parole simbolo della Rivoluzione francese:liberté, égalité, fraternité, la seconda è la più evocata, ma anche la più contrastata. Ma come è possibile che questa parola abbia avuto tanta fortuna nella storia dei concetti politici nonostante la difficoltà di stabilire il suo significato descrittivo? Una rivendicazione di eguaglianza ha infatti un qualche senso se si traduce (come scriveva Bobbio) “nella negazione di una specifica ineguaglianza (giuridica, politica, sociale ed economica) fra qualcuno e qualcun altro; considerati sotto specifici aspetti ed in nome di un qualche criterio di giustizia”.
Eppure negli ultimi secoli si è assistito a rivendicazioni di eguaglianza che si sono sempre caricate di pathos derivante da un intento di universalità ed assolutezza che si è spinta oltre la rivendicazione particolare. E proprio da questo suo travalicamento è sembrato che traesse la propria forza.
Ad occuparsi per prima del concetto di eguaglianza è la cultura greca. Il termine, coniato inizialmente entro il contesto costituito dalle origini della matematica, da principio viene inteso come una categoria dell’ordinamento del cosmo e solo successivamente come elemento centrale dell’ordinamento della polis secondo giustizia. Nella concezione dei greci si tratta però essenzialmente di quella che oggi chiameremmo eguaglianza giuridica. Perciò non una eguaglianza politica e tanto meno sociale. Per la buona ragione che nella civiltà greca la concezione della società è radicalmente antiegualitaria. Essa ritiene infatti che gli esseri umani siano fra loro ineguali “per natura”. Tant’è vero che alcuni sarebbero nati per essere schiavi ed altri per essere uomini liberi. Per non parlare delle donne, alle quali non è riconosciuto alcun diritto. Per i greci quindi gli esseri umani si collocano in un rapporto gerarchico e la giustizia viene intesa come proporzione. Vale a dire attribuendo in modo proporzionato, ad individui naturalmente diseguali, oneri e benefici diseguali.
L’egualitarismo moderno nasce diversi secoli dopo. In sostanza a partire dal 1600. Esso si ispira ad un duplice criterio: l’ideologia e l’utopia. La prima parte da una immagine condivisa della realtà sociale. La seconda, al contrario, si riferisce ad un ideale da realizzare modificando la situazione esistente. Hobbes, il più geniale teorico della nuova società (ma anche il più drastico fautore di soluzioni politiche autoritarie) combina questi elementi per costruire una nuova teoria politica. Secondo Hobbes il problema della legittimità di un ordinamento politico va risolto a partire dalla tesi dell’originaria eguaglianza degli esseri umani. Infatti nell’ipotetico “stato di natura” gli esseri umani sono fra loro uguali. Perché ugualmente capaci di arrecarsi il massimo dei mali: cioè uccidersi l’un l’altro. Va detto che nelle teorie di Hobbes, come di molti altri teorici del contratto sociale e del diritto naturale, si assume la finzione di una originaria eguaglianza degli individui che si trasforma in ineguaglianza quando questi entrano a far parte della società. Anche perché la società è fondamentalmente concepita come una costruzione artificiale.
A questo schema, secondo il quale dall’eguaglianza naturale si passerebbe all’ineguaglianza sociale, Montesquieu introduce una variante di grande rilievo: l’eguaglianza naturale, perduta nella vita sociale, può venire recuperata “grazie alle leggi”. Rousseau fa un ulteriore passo avanti ed elabora una concezione della storia nella quale l’originale eguaglianza che viene perduta attraverso l’instaurarsi di una ineguaglianza non è più concepita come un dato necessario, ma al contrario viene giudicato “funesto”. La restaurazione dell’eguaglianza viene perciò ritenuta precondizione per il superamento di tutti i mali dello stato di cose esistenti. Che rappresentano appunto l’esito nefasto di un processo di degenerazione. In tal modo i concetti di eguaglianza e di libertà vengono collegati in quanto si condizionano reciprocamente. Ne consegue che l’eguaglianza può essere restaurata solo attraverso la costituzione del popolo in potere sovrano.
Per tutto il settecento il dibattito pubblico sull’eguaglianza si sviluppa e si infiamma. Significativa, tra le altre, la polemica tra il reazionario anarcoide Thomas Carlyle, fautore della schiavitù, ed il liberale John Stuart Mill, che avversa le diseguaglianze di partenza, crede nella dignità di ogni uomo e nel libero confronto tra gli uomini in condizioni di parità. Nella loro polemica, riproposta recentemente, in modo magistrale, da Claudio Magris, si contrappongono due concezioni opposte di società. L’una basata sui limiti della democrazia e sul valore assoluto del lavoro, l’altra sull’eguaglianza come condizione di partenza necessaria per ogni uomo.
Negli anni che precedono la rivoluzione francese si aggiungono anche progetti utopici di società egualitarie. Queste ipotesi di ingegneria sociale faranno da sfondo e da lievito all’azione del gruppo di Babeuf e Buonarroti (con la “Congiura degli Uguali”) che li spinge a rivendicare, oltre all’eguaglianza davanti alla leggee all’eguaglianza politica anche quella che verrà chiamata egalité réelle. Vale a dire l’eguaglianza assoluta delle condizioni socio-economiche.
Naturalmente, accanto ai sostenitori dell’eguaglianza non mancano i detrattori ed i critici. Non solo di destra, ma anche di sinistra. Tra questi ultimi, contrariamente a quanto sostiene la vulgata mediatica che presenta spesso l’eguaglianza come un principio marxista, c’è Carlo Marx.
Marx critica infatti l’eguaglianza come uno pseudo ideale politico. Concezione, a suo giudizio, succube della stessa malattia ideologica che affliggeva gli ideologi della borghesia, gli apologeti dello Stato e del mercato. Secondo Marx l’astrattezza dell’eguaglianza avrebbe finito per farne un cattivo strumento critico nei confronti della realtà esistente. Condannando in tal modo anche i devoti dell’eguaglianza a perpetuare la situazione esistente con tutte le sue ingiustizie ed iniquità. All’egualitarismo Marx oppone la prospettiva del comunismo. Un criterio regolatore che si pone oltre l’eguaglianza. Infatti, secondo il filosofo di Treviri, la società comunista dovrà funzionare in base al principio: “a ognuno secondo i suoi bisogni”. Che non è un criterio egualitario. Per il semplice fatto che non è possibile presumere una eguaglianza di bisogni.
Ad ogni modo, la discussione sull’eguaglianza continuerà con grande intensità per tutto l’ottocento ed il novecento. In particolare, nella seconda metà del novecento, il tema dell’eguaglianza porterà a riflettere ed elaborare nuove teorie della giustizia. Giustizia è parola che più di altre si presta a definizioni molteplici. A volte persino antitetiche. In secoli di storia del pensiero il concetto ha infatti conosciuto un numero altissimo di elaborazioni, delle quali non è facile fare anche solo l’inventario. Anzitutto essa si identifica con la legge e con la capacità (di norma formalizzata in regole ed istituzioni) dei corpi sociali di comporre in modo pacifico i conflitti ed in ciò che ha a che fare con il giudice, con la giustizia civile e penale.
Connaturato a questa nozione di giustizia è il principio che tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge. Che perciò, in una controversia ed in generale nei rapporti con i pubblici poteri, essi siano trattati alla stessa maniera, secondo regole comuni. Cioè sulla base di leggi promulgate nell’interesse generale. Che non siano quindi proprietà esclusiva ed abusiva di uno solo “che si è appropriato della legge”. Come dice Teseo nelle Supplici di Euripide.
Si tratta quindi della giustizia come eguaglianza. Ma anche della giustizia come equa ripartizione dei beni; della giustizia come abolizione di ogni forma (palese ed occulta) di sfruttamento. Per intenderci quelle a cui fa riferimento l’articolo 3 della nostra Costituzione. Il quale afferma appunto che è compito della Repubblica “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
A proposito di giustizia, John Rawls, (in Una teoria della giustizia) ha scritto: “la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi ed istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita di libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri.” In sostanza la teoria della giustizia di Rawls è una teoria dell’equità. I principi su cui si fonda sono essenzialmente due. Il primo è il principio dell’eguale sistema di libertà delle persone, in quanto cittadine di una comunità democratica. Il secondo, strettamente connesso al primo, è il principio di differenza. Esso prescrive che siano giuste ed accettabili, e quindi eque, solo quelle diseguaglianze che vadano a vantaggio dei gruppi più svantaggiati della società.
Declinando politicamente tutto il dibattito teorico, Norberto Bobbio (in Destra e sinistra) assume l’eguaglianza come discrimine tra destra e sinistra e come riferimento imprescindibile per la sinistra, in quanto la destra all’eguaglianza oppone la gerarchia. Nel suo libro Bobbio propone una ampia analisi delle diverse destre e sinistre che si sono succedute nel corso della storia ed individua nell’antitesi tra egualitarismo ed anti-egualitarismo l’aspetto più qualificante. Il suo assunto parte dalla presa in considerazione e dalla critica dei due criteri di distinzione largamente utilizzati dalla letteratura sull’argomento. Il primo riferito all’individualismo ed all’organicismo. Perché, riconosce Bobbio, vi sono posizioni individualiste ed organiciste tanto a destra che a sinistra. Il secondo relativo alla diade progresso e conservazione. Anche qui con la constatazione che pure i progressisti hanno cose da conservare. A cominciare dalla libertà e dalla democrazia. Ed a loro volta pure i conservatori non disdegnano di cambiare qualcosa. Preferibilmente ciò che considerano più conveniente o, se messi alle strette, meno sconveniente. Stabilite queste premesse, Bobbio scrive” A mio parere il criterio di distinzione più significativo ed incisivo è quello che si fonda esclusivamente sul diverso atteggiamento che gli uomini assumono di fronte all’ideale dell’eguaglianza, che è certamente insieme all’ideale della libertà (e forse con quello della pace) uno dei fini ultimi dell’uomo che vive in società. Prescindendo totalmente dal giudizio di valore sul perché l’eguaglianza sia preferibile alla diseguaglianza [….] mi limito a constatare che ci sono concezioni politiche egualitarie e concezioni politiche inegualitarie e che la distinzione tra destra e sinistra passa soprattutto attraverso questa contrapposizione”. Bobbio spiega immediatamente cosa intende per egualitari ed antiegualitari precisando che: “si possono chiamare correttamente egualitari coloro che pur non ignorando che gli uomini sono tanto uguali che diseguali danno maggiore importanza, per giudicarli ed attribuire loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto a ciò che li fa diseguali. Al contrario inegualitari sono coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto a ciò che li rende uguali”. Ed aggiunge: “ si tratta di scelte etiche che affondano le loro radici in condizionamenti storici, sociali, familiari, forse anche biologici, di cui sappiamo molto poco. Fattualmente è vero che gli uomini sono tanto uguali che diseguali: il preferire l’eguaglianza alla diseguaglianza (ed agire di conseguenza) è una scelta morale. Ma è proprio questa scelta morale che contrassegna molto bene, a mio parere, i due opposti schieramenti che, ormai per lunga tradizione, siamo abituati a chiamare destra e sinistra”. In definitiva per Bobbio la distinzione tra destra e sinistra non è un fatto puramente spaziale (che cioè ha a che fare con la dislocazione nell’emiciclo del Parlamento). Ma appartiene al conflitto di valori. Ne consegue che la sinistra trae la sua legittimazione e la sua identità soprattutto dall’impegno ad una maggiore eguaglianza sociale. O, se si preferisce, dalla sua capacità a contrastare le diseguaglianze. In quanto l’eguaglianza che si esige è il grado più sopportabile della diseguaglianza.
Da anni ormai questa tensione della sinistra verso una riduzione delle diseguaglianze appare notevolmente affievolita. Le ragioni di questa involuzione sono diverse. Gli analisti politici e gli studi di sociologia politica ne hanno trattato ampiamente. Tuttavia una sembra preminente. Con la fine delle ideologie la discussione politica ha accantonato anche il dibattito sui fini. Abbandonata la discussione sui fini e dunque sulle alternative politiche è diventata prevalente la personalizzazione della politica. Personalizzazione che spinge ad una competizione per il potere fondata sugli interessi e soprattutto sulla amministrazione dell’esistente. In una situazione del genere, non sorprende quindi che le diseguaglianze abbiano ripreso a correre. Assistiamo così a disparità crescenti: tra chi lavora e chi non riesce a trovare alcun lavoro; tra chi produce guadagnando poco e chi guadagna molto senza produrre niente; tra chi paga le tasse per tutti e chi le può evadere a proprio vantaggio.
Questa situazione ha non solo conseguenze politico-culturali che comportano l’abbandono di ogni seria ricerca di una società più equa e più giusta. Ma, cosa che in genere viene sottaciuta, ha soprattutto effetti negativi sul piano economico. Per il semplice fatto che più crescono le differenze nella distribuzione della ricchezza, minori diventano la possibilità di crescita.
E’ esattamente ciò che sta accadendo all’Italia. La tendenza all’aumento delle diseguaglianze, assecondata da un governo a guida anarco-conservatrice, crea non solo crescenti ingiustizie, ma blocca la crescita e frena la mobilità sociale. Cioè quel meccanismo che fa sperare ai padri che ai figli possa essere assicurato un avvenire migliore. Degli effetti economici negativi prodotti dalle diseguaglianze si ha conferma consultando l’ultimo rapporto Ocse. I dati contenuti nel rapporto confermano che tra i paesi appartenenti all’Ocse l’Italia è uno di quelli messi peggio. Nel senso che si colloca ai vertici della diseguaglianza. Per stabilire questa graduatoria l’Ocse ha utilizzato l’indice Gini. Come è noto l’indice è pari a 0 quando tutti i redditi sono uguali; è invece uguale a 1 quando la differenza è massima. Ebbene, il coefficiente Gini per l’Italia è di 0,35. Uno dei peggiori messi a segno dai paesi europei. L’aspetto importante da sottolineare è che, nel giro degli ultimi quindici anni, l’indice Gini per l’Italia è passato da 0,30 a 0,35. Detto in altro modo, significa che negli ultimi anni, da noi sono stati premiati i più ricchi. Cioè coloro che stavano già bene. In effetti, nel periodo considerato, i redditi alti sono cresciuti sei volte di più dei redditi bassi. Non è quindi un caso che il tasso di crescita dell’economia italiana risulti, ormai da anni, nettamente inferiore alla media dei paesi Ocse ed anche alla media europea.
Si può correggere questa tendenza al declino? Per l’Ocse gli strumenti “più diretti e potenti” sono le riforme delle politiche fiscali (facendo pagare di meno a chi sta in basso e di più a chi sta in alto nella scala sociale) ed adottando misure appropriate di sostegno al reddito. Si pensi ad esempio ai precari, che quando perdono il lavoro perdono tutto. Da sole però queste misure non bastano. Bisogna infatti anche creare lavoro e strappare le famiglie alla povertà aumentando l’occupazione, la formazione e l’istruzione. Bisogna insomma investire di più sul capitale umano e sulla scuola. L’esatto contrario di ciò che si sta facendo da noi.
In definitiva, le concrete possibilità di arrestare il declino economico e sociale dell’Italia, altrimenti irrefrenabile, passano anche dall’impegno a riprendere e con la determinazione necessaria una battaglia (culturale, politica e sociale) per l’eguaglianza. Che però per essere davvero incisiva non può risolversi in pensieri solitari, ma deve tornare ad essere un condiviso ideale umano ed un valore morale.
Pierre Carniti