E’ morto Carlo Vittori. A 84 anni, alla viglia di Natale, a pochi giorni dalla sua ultima apparizione pubblica, per ritirare una sorta di ‘premio alla carriera’ in quella Formia che fu la sua seconda casa per anni, nel centro sportivo vanto del nostro paese dove costruì un pezzo enorme di storia dello sport italiano. Non ci sarebbe bisogno di ricordarlo se la nostra classe giornalistica riuscisse ad andare oltre il copia-incolla del “colui che allenò Mennea“, ma questo passa il convento e allora c’è bisogno di dire qualcosa di più
Ricordarlo solo per quello, infatti, è riduttivo. Molto.
Ascolano dalla facciata burbera che nascondeva la realtà di un uomo profondo e dal cuore d’oro, dopo la giovanile carriera da velocista allenò anche altri campioni del nostro sport, ad esempio lo straordinario Marcello Fiasconaro
Segnò con la sua presenza l’atletica italiana per almeno 30 anni e ancora oggi i suoi libri sulle metodologie di allenamento sono delle imprescindibili bibbie. Perchè il corpo umano è prima di tutto scienza, e Vittori fu uno fra i primi al mondo a capirlo.
Alfiere della lotta al doping, pagò il suo impegno cocciuto in un’epoca (gli anni ’70 e ’80) nella quale anche in Italia non mancarono le ombre.
Per molti anni, troppi, ha poi vissuto ‘in panchina‘, amatissimo dagli appassionati e dagli atleti, molto meno dai dirigenti che non hanno mai apprezzato il suo essere contro, la sua personalità forte che lo rendeva uomo scomodo, uno che aveva il difetto di dire sempre quello che pensava. E l’hanno tenuto ai margini. Più la nostra atletica andava giù, più ci si chiedeva che senso avesse lasciare un talento e una risorsa così enorme fuori dal palcoscenico. Ma così è stato, fino alla fine, tant’è che il cordoglio di oggi suona un po’ grottesco.
La scienza, dicevo. Perchè Vittori fino al suo ultimo giorno è stato sempre un uomo moderno e illuminante, tutt’altro che un burbero nostalgico e criticone.
Seppe usare la scienza per portare un uomo dotato sì di straordinaria forza di volontà come Pietro Mennea, ma gracilino, non tanto alto e perfino con un accenno di scoliosi, davanti ai colossi americani, inglesi, giamaicani. E perfino davanti al campionissimo sovietico, l’uomo-macchina Borzov
Di fronte al suo rivale Valentin Petroski, allenatore di quell’androide ucraino dal fisico statuario, capì che l’unica strada per vincere era essere, fino in fondo, italiani. E allora studiò, applicò ai suoi metodi la modernità della ricerca (all’epoca in quel campo eravamo ancora al top), fece allenare Mennea da tre a cinque volte più del rivale per aumentare la resistenza alla velocità (fattore determinante delle sue vittorie, tutte ‘in rimonta‘), ma non dimenticò mai quel tocco ruspante e romantico che ci rende grandi. E non gli mancarono i guizzi geniali, anche quelli così tanto italiani.
Se Mennea è un’icona di determinazione lo è anche grazie a quel copertone che gli attaccava addosso e gli faceva tirare a più non posso, a quelle corse con lui in vespa e Pietro lì dietro ad ansimare a denti stretti.
Sarebbe bello, se davvero ci fosse una vita dopo la morte, rivederli di nuovo così. Con Pietro che lo batte e lui che se la prende con la frizione della Vespa. “Per forza hai vinto, non m’è entrata una marcia! Rifacciamola!“