Era la fine degli anni 70 e Cassola pubblicava L’uomo e il cane per Rizzoli: il protagonista è l’abbandonato e meticcio Jack, vagabondo in cerca di una nuova casa; il tutto è una grande allegoria della condizione umana, del bisogno di avere un padrone al quale affidarsi, senza pretendere nulla.Era l’inizio degli anni novanta e al cinema usciva Stanno tutti bene, regia di Tornatore: Matteo Scuro, anziano vedovo, attraversa tutta l’Italia alla ricerca dei cinque figli, ormai falliti irremediabilmente.
Era la metà degli anni ottanta e usciva postumo A ovest di Roma di John Fante, un insieme di due racconti – Il mio cane stupido e L’orgia – che riprendeva lo spirito di Cassola e anticipava la telemachia (al contrario) del siciliano ideato da Tornatore.
Che la mia mente vaghi tra ricordi di film, libri e canzoni alla ricerca di continui riferimenti, non c’è dubbio; che A ovest di Roma rappresenti un buon compromesso tra le due opere sopracitate, qualche dubbio c’è, e ci vuole un bel po’ di fantasia per crederci.
Il mio cane stupido è un racconto lungo – o un romanzo breve, a voi la scelta – in cui a parlare è Henry Molise, scrittore decaduto nel bel mezzo di una crisi di mezza età, costretto a confrontarsi quotidianamente con una moglie noiosa e annoiata, e con dei figli ingrati e falliti che scambierebbe volentieri per una nuova Porsche. Durante una notte di manzoniana pioggia purificatrice, un gigantesco cane peloso – pigro, testardo e di discutibili tendenze sessuali – compare nel giardino della famiglia sgangherata; è la svolta: il suo nome è Stupido.
Tra surreali vicende domestiche – fughe e abbandoni, bugie e rivelazioni – e tra cinismo e comicità, si inserisce Henry Molise, alter ego di Stupido e uomo perennemente insoddisfatto e inappagato. E l’insoddisfazione è il filo conduttore che lega il primo racconto a L’orgia, che di orgia non ha niente, ma che costituisce comunque piacevoli pagine da leggere. Il protagonista, Nick Molise, è un muratore, triste e dilaniato dalla fatica; ma la voce narrante è quella del figlio: il che, da una parte fornisce un diverso punto di vista, invertito rispetto al primo racconto, dall’altra pone l’attenzione sull’inevitabile scontro generazionale vissuto da un bambino di dieci anni. Una cinquantina di pagine, giusto per mostrare l’altra faccia della medaglia.
In entrambi i racconti si tratta di uomini stanchi e frustrati che vedono in un cane, nel primo caso, e in una miniera d’oro, nel secondo, due possibili mezzi di riscatto, per evadere da una quotidianità che non li appaga come dovrebbe. Il taglio autobiografico è sempre presente, come del resto era stato preponderante in Chiedi alla polvere. Così, oltre che simpatizzare per i personaggi, si inizia a simpatizzare anche per colui che li ha inventati, e il rapporto lettore-autore si fa più stretto ed empatico. D’altronde tutti i romanzi (e gli scritti in generale) sono autobiografici: è chiaro che ci infili sempre la tua vita, tra ciò che scrivi, non puoi lasciarla fuori. John Fante, perlomeno, rimane il più onesto.