Si parlava, ieri all’Università, dell’eventuale utilità che può avere il giudizio “di pancia” (sarebbe meglio dire “d’istinto”) del critico d’arte per stabilire la datazione o la paternità di un’opera quando vengono a mancare fonti per poterle ricostruire. In mancanza d’altro, è spesso solo l’occhio attentissimo e la fantasia del critico a poter collocare in qualche modo un’opera, e le sue elucubrazioni possono persino rivelarsi esatte quando spunta fuori un documento che le conferma.
(Per banalizzare la cosa, c’è stato un periodo in cui avrei potuto datare una qualsiasi esibizione di Elton John degli anni Settanta solo sulla base della voce, tanto lo ascoltavo (e tanto rapidamente è declinata la vocalità del cantante britannico).)
Gira che ti rigira, il discorso è caduto sulla famosissima storia delle false teste di Modigliani, un episodio in cui i giudizi di pancia si rivelarono… semplicemente errati. Detta in due parole, la storia è questa: girava a Livorno la voce che il grande Amedeo Modigliani avesse gettato in un canale delle sue sculture prima di partire definitivamente per Parigi, nel 1909 – il gesto sarebbe stato un segnale di disprezzo per una città che non lo amava, come a dire “meglio ai pesci che ai miei concittadini”. Quando ricorreva il centenario della nascita dell’artista (1984), fu decisa l’organizzazione di una grande mostra, e in vista dell’allestimento fu dragato il canale incriminato allo scopo di appurare se le teste c’erano oppure no. Sorpresa delle sorprese, ne vennero fuori ben tre, con gran godimento della direttrice del museo locale d’arte contemporanea e del fior fiore della critica d’arte italiana (un nome su tutti, l’indimenticato Giulio Carlo Argan). Migliaia di turisti, da ogni parte del mondo, si recò a Livorno in quei giorni assolati di trent’anni fa, convinta della bontà della scoperta. Fu con grande sopresa che un gruppo di ragazzi dichiarò a Panorama che erano loro gli autori di una delle teste, scolpita per pura goliardia. Le altre due erano di un artista locale, anche lui rapidamente venuto allo scoperto, che così voleva dimostrare la stupidità della critica d’arte contemporanea. Apriti cielo: nessuno dei grandi critici ebbe il coraggio di ammettere il proprio errore, e fu solo la realizzazione – in diretta nazionale su Rai 1 – di una nuova testa da parte dei ragazzi con un semplicissimo Black & Decker, che pose fine alle polemiche (ma se volete saperne di più, consultate pure questa pagina).
La réclame con cui la Black & Decker approfittò della pubblicità involontaria portatagli dai ragazzi livornesi
…e l’inevitabile sfottò del Vernacoliere
In effetti la mia narrazione omette un particolare: ci fu un solo critico di peso a rifiutare l’attribuzione delle opere, e fu il grandissimo Federico Zeri (uno che, tanto per dire, detestava Argan). Zeri spiegò così il suo punto di vista sulla Stampa, in un testo che merita di essere stampato nella nostra memoria.
Vere o false, le tre pietre sono pezzi di anodino livello così scarso che per esse non valgono neppure gli epiteti di giudizio qualificante. Se autentiche esse rappresentano per così dire la preistoria di Modigliani, che fece bene a disfarsene. Ma qui nascono, in folla, le considerazioni che suscita la vicenda. La prima è l’arroganza con cui la critica d’arte comtemporanea impone al pubblico tutto ciò che essa considera valido e degno di nota. Il pubblico è considerato dai Vati e dai Druidi della critica come una massa amorfa, incapace di giudicare senza la guida di ‘color che sanno’, cioé di quella odierna varietà dei chierici di un tempo che sono i critici d’arte. Costoro adoperano un linguaggio oscuro, involuto, profetico, degno della Pizia e della Sibilla Cumana. Beninteso, dietro gli ispirati vaticini dei critici si muovono interessi commerciali: da almeno cento anni tutto il fenomeno dell’arte contemporanea riconosciuta dai critici è un colossale fenomeno di mercificazione e di speculazione, del tutto staccato dai reali interessi figurativi della società e delle masse.
Guai se queste ultime si ribellano: esse debbono restare docili, subire l’arte. In realtà l’arte contemporanea è uno smaccato fenomeno di élite, ad uso e consumo degli intellettuali. Ed è deplorevole che la corrente critica di ispirazione marxista si sia lasciata irretire da questi e non li abbia combattuti come meritano; a meno che l’autentica arte moderna destinata alle masse non vada riconosciuta nel cinema, nei fumetti, nei manifesti pubblicitari.
L’episodio inaudito di Livorno sollecita un’altra considerazione, ed è la facilità con cui si riesce a falsificare l’arte moderna. Che una o più delle teste ripescate abbiano potuto suscitare un tale clamore in quanto sospettate false, tale ipotesi, presa sul serio è di per sé una prova della vacuità di quei prodotti. Il filo tra vero e falso viene a fondersi in un unico calderone in cui, come in talune zuppe di verdura, tutto è buono, tutto fa brodo.