La cosa bella della musica – e dell’arte in genere – è che appartiene a tutti, a quelli che la amano e a quelli che la detestano. Ognuno di noi ha la sua idea di questo o quel brano, e queste idee singole non coincidono mai, o quasi, perché li conosciamo ciascuno a suo modo. Per rimanere sulle citazioni pirandelliane, ogni brano ci appartiene, essendo uno, nessuno e centomila – ed è sulle centomila interpretazioni che voglio mettere l’accento.
Ogni coppia ha la sua canzone, e gli attribuisce un significato particolare che trascende quelle che erano le intenzioni – esplicite o meno – dell’autore. Possiamo aggiungere che di ogni artista, inteso come personaggio e opere che ha prodotto, possono nascere infinite letture ed infinite considerazioni. C’è chi stravede per Jovanotti, perché magari ha accompagnato la sua adolescenza, o per i Beatles, perché le loro canzoni hanno fatto da sottofondo ai suoi momenti felici.
Tutta questa introduzione per dire a cosa penso quando sento parlare di Lou Reed, quello dei Velvet Underground, che ci ha lasciato oggi. Ora, io ho scoperto i Velvet verso gli ultimi anni di Liceo, ma Lou lo conoscevo già. Anzitutto perché il mio babbo lo citava a cadenza quasi quotidiana – sicuramente era un suo mito adolescenziale. Ma soprattutto perché un giorno, non sapendo quale ellepì mettere su una fonovaligia che non so come mia madre aveva portato a casa, trovai tra gli scaffali un disco dalla copertina favolosa.
La cosa che mi colpì, oltre a quest’immagine così forte, fu che il brano che apriva il 33 giri era ancora meglio: una furiosa, energizzante versione di Sweet Jane dei Velvet.
Quando ho letto la notizia, oggi ventisette ottobre duemilatredici, ero sugli scalini di un bar. Ma per un secondo mi sono rivisto, ragazzo quattordicenne, seduto sul letto con gli occhi spalancati davanti ad un buffo giradischi, sconvolto da quanto erano avanti questi musicisti americani degli anni Settanta.