Già pianificando una fuga in grande stile, degna del miglior Clint Eastwood prigioniero ad Alcatraz, con Laura ci siamo riparati in una zona all’ombra, davanti a un secondo varco d’ingresso. E poco dopo, quando il panico aveva già cominciato a sussurrarmi parole intrise di disfatta, ci sono state due sorprese, liete e molto gradite: l’arrivo di un bel gatto tigrato che
si muoveva in quell’ambiente con estrema disinvoltura, come se non fosse un semplice felino, ma uno che per guadagnarsi la pagnotta lavora dietro le macchine da presa da una vita. Affettuoso, amichevole, è passato per un rapido saluto per poi tornare alle sue faccende gattesche e scomparire per sempre da questa storia.
La seconda sorpresa, quella che alla fine ha fatto la differenza e mi ha fatto restare, c’è stata quando uno degli addetti alla sicurezza (perché si sa, gli scrittori sono poco raccomandabili e devono essere tenuti d’occhio come quelle “bestie feroci” di cui ha tanto parlato Bunker) ha invitato tutti a spostarsi proprio verso quel secondo ingresso: per un incredibile colpo di fortuna, mi sono ritrovato in pole position, a pochi metri dal tavolino dove un ragazzo aveva cominciato a preparare tutto l’occorrente per la prima, fondamentale tappa del percorso: l’Assegnazione del Numero.
Dopo una brevissima spiegazione da parte di un responsabile su come si sarebbe svolta la selezione, e dopo un lasso di tempo indefinibile, durante il quale ho conosciuto Laura e sua sorella Chiara, finalmente la sbarra ha cominciato a sollevarsi e senza perdere tempo, mi sono esibito in uno scatto degno del più grande atleta di tutti i tempi, tanto da guadagnarmi il preziosissimo numero 3. Uno dei numeri perfetti e per un attimo mi sono affidato alle certezze della numerologia: con un numero come quello, chi mai avrebbe potuto sconfiggermi? Con il numero 3 dalla mia parte . . . ma le mie divagazioni sul potere mistico dei numeri sono state di breve durata perché qualcuno mi ha cortesemente invitato a seguire le transenne per arrivare a un altro tavolo, laddove una liberatoria di “mamma Rai” aspettava con impazienza la mia firma.
Due ragazze aspettavano i provinandi e quando è toccato a me, ho ripetuto il mio nome.
“Qui ho uno Stefano Milighetto,” ha detto lei controllando l’elenco e io, maledicendo quel terribile errore, ho spiegato di aver sbagliato a digitare l’ultima lettera, dicendole che nella tastiera del pc la i e la o sono vicine e che un refuso si può concedere a tutti, perfino a uno che sogna di mantenersi scrivendo.
Superato l’ostacolo con una certa classe (quel giorno infatti ero il solo che veniva da Castiglion Fiorentino, nato il xxxx, residente in via xxxx e che aveva presentato il romanzo xxxx: sono così riuscito a dimostrare che non ero né un mitomane né imbucato della peggior specie!), sono ritornato verso l’ingresso ma qui mi è stato imposto un diktat degno dei più granitici generali prussiani: gli accompagnatori se ne stanno fuori, chi deve fare il provino al bar qui accanto. A queste parole, prendendo spunto dall’Eroe dei Due Mondi, ho risposto con un laconico “Obbedisco!” e, diligente come un bambino al suo primo giorno di scuola, mi sono accomodato al bar, aspettando la chiamata e tendendo le orecchie per carpire ogni informazione utile perché si sa, sapere è potere.
Mi sono seduto in un divano, bottiglia d’acqua alla mano, pronto per un’attività degna della sala d’attesa di ogni studio televisivo e di qualsiasi salotto letterario: un’entusiasmante partita a City Bloxx, il gioco di punta del mio vecchio telefonino con tanto di tastiera e privo di connessione internet, capace tuttavia di compiere eccellenti telefonate e inviare sms senza troppe difficoltà.
Avevo posizionato i primi edifici della mia gigantesca metropoli virtuale, quando è comparsa una ragazza vulcanica che, con voce spigliata, ha chiamato i primi dieci.
continua…