Nell’ultimo mese ho letto due romanzi firmati da Stephen King: La leggenda del vento e Joyland.
Il primo, La leggenda del vento, è stato come un piacevole ritorno in una città amata e piena di ricordi: una nuova avventura di Roland di Gilead, l’implacabile pistolero che va errando per il Medio Mondo alla ricerca della Torre Nera.
Roland, nelle vicinanza di Calla Bryn Sturgis, si ripara insieme ai suoi compagni d’avventura in un villaggio abbandonato per sfuggire a una terribile tempesta di vento e ghiaccio, lo Starkblast. E durante questo ricovero forzato, racconta a Eddie, Susannah e Jake di quando, ancora ragazzo, venne inviato da suo padre a combattere un temibile skin-man, un uomo muta forma in grado di assumere le sembianze di ogni animale.
Dopo la fine della saga, quando ormai tutto sembrava scritto, è stato appassionante tornare in quel mondo che è “andato avanti”, e calarsi in quella realtà, entrare nel ka-tet di Roland è stato estremamente semplice. I personaggi, i vecchi racconti sono riaffiorati così nitidi che mi è sembrato di aver concluso la lettura della Torre da qualche settimana, e non quasi dieci anni fa.
In questo romanzo Stephen King ha dimostrato di avere ancora delle buone cartucce da sparare, specie per quella che lui stesso ha definito la sua “über-storia”, quel colosso quasi epico (mi si perdoni il termine) che ha appassionato milioni di lettori e che, per quelli che hanno vissuto l’attesa del capitolo successivo in tempo reale, resta una delle pietre miliari nella produzione del “Re”.
Quello che invece mi ha lasciato assolutamente perplesso è stato Joyland, romanzo ambientato in un luna park dove lo studente universitario David Jones trova lavoro prima per la stagione estiva e poi per l’intero anno.
Un parco di divertimenti la cui Casa degli Orrori è infestata dal fantasma di Linda, una ragazza assassinata quattro anni prima nel tunnel dell’orrore.
La leggibilità del romanzo è ottima, degna del migliore King, ma il resto, bè, fa acqua da tutte le parti: tanto per citare un mio amico, “dal Re del Brivido mi aspettavo almeno un brivido!” Ebbene sì, perché in questa storia di brividi non ce ne sono, neppure quelli provocati dagli spifferi di una finestra lasciata aperta nel cuore dell’inverno. Un fantasma praticamente inesistente che, a parte una rarissima apparizione, non si fa mai vedere e il finale, quello che risolve tutto, che chiarisce ogni cosa, è un insulto per tutti gli scrittori di libri gialli: il dettaglio che “accende la lampadina” è così insulso, quasi patetico, che per un attimo ho creduto di aver letto per sbaglio la fine di un altro libro.
Insomma, Joyland è stata una delusione, anzi, non mi ha lasciato niente, che è perfino peggio: dal mio punto di vista ha ben poco dello Stephen King degli inizi, di quando non era diventato il Re del Brivido, ma era ancora uno scrittore che si faceva le ossa e, per restare a galla, sfornava storie incredibili. Shining, La zona morta o Le notti di Salem sembrano provenire da un altro universo e non dall’immaginazione dello stesso autore di Joyland.
L’editore USA del romanzo ha detto di aver pianto una volta arrivato alla fine. Io, invece, sono rimasto di sasso.
Peccato.