Comprendere la nostra identità, come si definiscono le relazioni che abbiamo con il mondo circostante, operare confronti tra similitudini e diversità, suddividere la realtà in categorie estetiche e morali come bello/brutto, buono/cattivo, utile/inutile… sono tutti processi che costituiscono tappe essenziale del nostro viaggio nella costruzione dell’immagine del Sé che ci porteremo dietro per tutta la nostra esistenza.
L’immagine che costruiamo di noi stessi è come un puzzle che piano piano prende forma e diventa riconoscibile in seguito alle risposte che gli altri ci rinviano rispetto al nostro essere.
Ciò che definiamo essere la nostra identità è il frutto della percezione (vera o presunta) del giudizio altrui su di noi.
Durante l’infanzia sono soprattutto le valutazioni e le definizioni ricevute dai genitori che orientano la costruzione del nostro senso di Sé, che iniziano spesso ancor prima della nostra nascita attraverso l’esplicitazione di aspettative familiari che derivano dalla storia e dai miti del nostro nucleo di appartenenza (es. la madre che preannuncia al padre rispetto al nascituro”…si muove tanto, già ti assomiglia, è agitato come te!”).
Successivamente in adolescenza assumono maggior rilievo i giudizi provenienti dal gruppo dei pari e dal mondo esterno in generale.
Il modo nel quale veniamo trattati, definiti e descritti dagli altri modifica la stima che possediamo di noi stessi, cambiando di conseguenza anche i nostri comportamenti, il modo in cui rispondiamo agli altri e in cui esprimiamo i nostri bisogni.
L’adolescenza è la fase del ciclo vitale in cui la costruzione di un’immagine propria e unica diventa la priorità, un’urgenza per la quale si impiegano gran parte delle energie emotive e psicologiche.
Le domande che poniamo al mondo per rappresentarci chi siamo non sono mai espresse direttamente e verbalmente, ma sono sottintese in quasi tutti gli atti di relazione.
Ad esempio un adolescente, alle prese con le prime esigenze di autonomia, che chiede ai genitori: “Stasera posso tornare alle 11?” invia un doppio messaggio, ovvero: “Io mi vedo come uno che è grande abbastanza” e allo stesso tempo presuppone la domanda: “tu mi vedi grande abbastanza?”.
Così come non è possibile pensare alla nostra vita in un mondo senza specchi che ci confermino la nostra immagine fisica di esseri facenti parte della specie umana, non si può prescindere dal naturale e continuo processo di autoriconoscimento attraverso l’immagine che gli altri rimandano di noi, veicolata dai messaggi sottesi alle interazioni comunicative, siano esse verbali o non verbali.
Citando una frase famosa di Charles Harton Cooley: “Ciascuno è lo specchio dell’altro e riflette chi passa”.