Sono psicoterapeuta, ma dato che ho dei problemi, vado per aiuto da un altro terapeuta. La cosa non mi crea disagio, perché anche il mio terapeuta va da un altro terapeuta. E il suo terapeuta va a sua volta da un altro terapeuta. E il terapeuta del suo terapeuta viene da me.
Harvey Mindess
Per molti decenni, la filosofia, la letteratura, la medicina e la scienza in generale hanno ritenuto la comicità, il ridere e l’umorismo argomenti di poco conto, dando ragione a quanto afferma il proverbio secondo cui “il riso abbonda sulla bocca degli stolti”. Addirittura, in alcune epoche storiche non lontane dalla nostra come il Medioevo, ridere era un comportamento proibito e da condannare. Il buonumore è dunque stato raramente protagonista di ricerche medico-scientifiche, psicologiche o argomento di interesse filosofico.
Lavoro da anni come clown e come psicoterapeuta; nella veste di clown-dottore ho sperimentato il potere terapeutico del buonumore in situazioni difficili e drammatiche, come quella dell’ospedalizzazione in età infantile; allo stesso modo, come psicoterapeuta ogni giorno mi trovo di fronte ad emozioni negative; la sofferenza può comprendere tristezza, forte preoccupazione, paura, rabbia. Spesso uno dei primi sintomi riportati dalle persone che cercano il mio aiuto come psicologa è l’assenza del riso, inteso in senso ampio come difficoltà a sorridere, a godere delle piccole soddisfazioni della vita; la sensazione descritta è quella di “sentirsi spento”, “non aver voglia di sorridere”. Ciò può caratterizzare un periodo di vita particolarmente difficile, stressante o traumatico, ma può anche entrare a far parte della modalità prevalente attraverso la quale la persona vive la propria vita.
Il buonumore è di certo incompatibile con le emozioni negative appena ricordate, delle quali ho un profondo rispetto: è necessario, infatti, vivere pienamente il dolore ed affrontare la sofferenza che la vita a volte ci presenta, ed è altrettanto necessario ricominciare a vivere, così come per attraversare un fiume occorre immergersi dentro, bagnarsi della sua acqua e trovare la forza di riemergere, lasciandosi alle spalle la vecchia sponda. È questa la grande risorsa della risata: essa permette all’uomo di ri-nascere dopo un dolore.
Il potere di cambiamento della risata lo conoscono bene tutte le persone che operano attraverso la comicoterapia, dai nostri antenati buffoni di corte e menestrelli sino agli odierni cabarettisti, comici, clown di strada e clown-dottori; il loro ruolo è infatti condiviso dalla società ed anche visibilmente evidente attraverso una qualche maschera.
Il discorso si complica all’interno dello studio psicoterapeutico: l’immagine sociale dello psicologo è infatti tradizionalmente seria. Solitamente, ai congressi in cui si parla di sofferenza psichica non vi è spazio per l’umorismo (a meno che questo non sia l’argomento stesso del congresso!), e non di rado la psicologia ha tentato di rendere i risultati delle sue ricerche il più “seri” possibile, in modo da potersi guadagnare il titolo di “scienza” al pari della medicina.
Il risultato è che lo psicologo spesso manca completamente di autoironia e capacità di sdrammatizzazione nella relazione che ha con il suo paziente, dalla quale esclude uno degli aspetti più vitali: la risata. Nello stesso tempo e paradossalmente, lo psicologo vorrebbe trasmettere al suo cliente un messaggio positivo e riportare il sorriso nella sua vita.
Integrare risata e sofferenza, comicoterapia e psicoterapia è compito tanto arduo quanto stimolante: personalmente reputo una terapia “riuscita” quando la persona che ho di fronte torna a sorridere e a vedere con gioia ciò che c’è di positivo nella propria vita, dando meno importanza a tutto ciò che non c’è, o non c’è stato o potrebbe non esserci.